Sono oltre 500 i lavoratori Almaviva che dal 27 gennaio 2020 hanno risposto al numero di pubblica utilità 1500 attivato dal Ministero della Salute per rispondere ai dubbi e alle domande dei cittadini in merito all’emergenza Coronavirus in Italia.
La maggior parte degli operatori si trova in Sicilia, ripartiti tra le città di Palermo e Catania. Nei giorni scorsi il Ministero ha annunciato in via ufficiale la cessazione del servizio a partire dal 31 dicembre 2022. Ai lavoratori è stata concessa la cassa integrazione a zero ore, ma il sostegno economico si smaterializzerà il 28 febbraio prossimo.
La scadenza degli ammortizzatori sociali è dunque fissata per la conclusione di febbraio e, in assenza di una soluzione, per gli operatori Almaviva si prospetta il licenziamento. La dismissione del servizio di call center da parte del Ministero della Salute farà venir meno anche la clausola sociale che era stata introdotta nel 2016 anche per i privati.
Secondo la norma, in caso di cambio di gestore del call center, quest’ultimo sarà obbligato ad assumere gli operatori che lavoravano all’appalto precedente, con l’intento di mantenere invariati i livelli occupazionali. Questa opzione adesso non potrà essere praticata perché il servizio non viene trasferito ad altra azienda ma chiude.
“Andiamo avanti a colpi di scena, andiamo avanti in attesa di risposta da parte del Ministero e da parte di Almaviva. Giorno 30 ci era stato comunicato che si stava prospettando una proroga del numero 1500 fino a giugno, per poi essere smentita con la dismissione e con l’inserimento della cassa integrazione per gennaio al 100%”. A dichiararlo al Quotidiano di Sicilia è Angela Grasso, lavoratrice catanese di Almaviva che rischia di non avere più un futuro certo.
“Se fino a gennaio lavoravamo per tre volte al mese, adesso non lavoriamo nemmeno un giorno”, aggiunge. “Noi in famiglia siamo in cinque, ci sono spese quotidiane da mandare avanti oltre a un discorso di programmazione familiare. Avendo un contratto a tempo indeterminato e non a termine, ovviamente, abbiamo mutui, utenze e prestiti da sostenere. Abbiamo delle programmazioni che vengono a crollare perché le entrate si dimezzano in maniera considerevole e si deve sbarcare il lunario”.
“Tutti gli operatori del 1500 erano in altre commesse, si lavorava con un’altra tipologia di gestione”, prosegue Angela. “In un momento di emergenza siamo stati spostati e catapultati in una gestione differente. Non c’era più il cliente ma il cittadino, siamo stati formati e abbiamo lavorato anche in condizioni difficoltose, anche se in smart working. Assistere al meglio l’utente, accompagnarlo nel servizio non è stata una cosa da poco”.
“Abbiamo gestito delle persone che avevano un’effettiva emergenza e la si doveva risolvere, anche in tempi brevi. L’anno scorso in questo periodo quasi tutta Italia era positiva al Covid. C’è stato un crollo dei server e di tutta la certificazione, abbiamo continuato a dare l’assistenza e non sapevamo minimamente che nel frattempo stavamo perdendo le famose clausole sociali. L’inghippo sta lì, adesso è come se non appartenessimo a nessuno. Solo il Ministero può collocarci da qualche parte“.
A partire da marzo 2023, infatti, non vi sarà più certezza di inserimento per i lavoratori. Se il Ministero non interverrà garantendo un’occupazione agli ex call center, si prospetta il peggio con centinaia di famiglie che non sapranno più come andare avanti.
“L’unica certezza è che non lavoriamo. Dobbiamo stare in attesa, alle spalle a parassitare”, aggiunge la lavoratrice Almaviva. “Esistono la Naspi e cassa integrazione, ma anche per queste c’è un termine. Nel frattempo tutti quanti noi abbiamo raggiunto una certa età e siamo tagliati fuori dal mondo del lavoro e dai concorsi pubblici. Io ho 46 anni e sono madre, un privato ci pensa due volte prima di assumere. Un’azienda preferisce un giovane da formare, basta aprire un bando di concorso. Siamo tagli fuori per l’età”.
Particolarmente toccante anche la testimonianza di Anna Sapienza, altra lavoratrice Almaviva di Catania “abbandonata” da un giorno all’altro insieme agli altri suoi colleghi.
“Le speranze sono quelle di essere sistemati così come lo sono quelle dei miei colleghi che sono rimasti con Vodafone, che da giorno 5 avranno garantito un posto di lavoro”, fa notare.
“Parlarne ormai è diventato un dramma per tutti noi che siamo stati catapultati in questo servizio senza aver firmato nulla, con la promessa di rientrare con la presa in giro di essere ‘smart’ e avere delle skill. Per quanto mi riguarda, il servizio a Catania è iniziato il 19 luglio 2021, un anno e mezzo fa. Siamo stati buttati lì a lavorare con appena 6 ore di formazione e pronti a dare supporto alla gente, quasi a fare psicoterapia”.
“Chiamava gente a tutte le ore, esasperata dalla paura per il Covid”, rivela. “Si trattava di vivere o morire, non si trattava di contratti. Io ho una famiglia con due ragazzine. Per noi non c’è stato lo stesso trattamento riservato per gli altri colleghi che, per carità, non hanno colpe ma non c’è stato neanche un criterio per la scelta dei nomi”.
“Mi auguro di essere collocata da qualche altra parte, perché non ho scelto io rimanere su 1500 o di non lavorare. Sono stata sempre pronta a lavorare, così come lo sono stati anche tanti altri miei colleghi. Mi attendo una proposta di lavoro”, conclude Anna.
Nel frattempo, così come annunciato nei giorni scorsi dal governatore Renato Schifani, il prossimo 11 gennaio a Roma è previsto un tavolo di crisi tra la Regione Siciliana e il Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
L’obiettivo della Regione è quello di riuscire a trovare una soluzione con il Governo per evitare il licenziamento dei lavoratori di Palermo e Catania. “Ho confermato ai lavoratori l’impegno del Governo regionale, seguirò personalmente la vicenda insieme all’assessore Tamajo”, ha sottolineato Schifani.