Quando nel luglio di due anni orsono digitai l’ultima battuta del pezzo che avevo approntato per commentare il libro di Gemma Volli “Il Caso Mortara” (Ed. Giuntina) non pensavo che sarei tornato, così presto, a scrivere sulla storia sin troppo triste e vera del bambino, fatto rapire nel 1865 da papa Pio IX, a seguito di una delazione, certamente prezzolata, di una donna cristiana, a servizio presso una famiglia ebrea, piccolo borghese, che viveva a Bologna.
I fatti ebbero origine con il rapimento del 23 giugno 1858, fatti che nella loro esasperante drammaticità contrappongono l’ultimo papa re, che ritenne di non poter in alcun modo e per nessuna ragione rinunciare a salvare un’anima, che anche se, all’insaputa dei genitori, era divenuta cristiana, a seguito del battesimo che la domestica gli aveva amministrato, credendolo in pericolo di vita, per evitare che finisse nel limbo, dove, secondo la credenza cristiana, sono destinati i bambini che lasciano questo mondo prima di essere battezzati. L’ ottimo film di Marco Bellocchio, con la sua testimonianza storica, è in grado di suscitare vibranti reazioni, che si scatenano anche a caldo tra gli spettatori in sala.
Queste polemiche mi hanno indotto a dare oggi un seguito al mio primo scritto. La provocazione più stimolante è venuta da quella parte di spettatori che subito dopo aver visto il film, ha idealmente tracciato una linea di demarcazione, ponendo cattivi da una parte e buoni dall’altra. In realtà, i protagonisti principali di questo rapporto sono almeno tre il papa, con la sua coesa corte, contro il bambino e la madre, quindi nessuna simmetria bilaterale può tornare utile per dipanare il conflitto di questa storia.
La mamma con il suo ciclopico dolore, per lo meno nel film, riesce a mettere in ombra la sorda disperazione del padre, resa ancor più disumana dal senso di impotenza che lo svolgimento dei fatti non manca di rimarcare. In realtà, nessuno dei contendenti resterà indenne dalle conseguenze di quest’atto di barbara violenza, compreso Pio IX, che crescerà il piccolo Mortara come un figlio suo, nell’ambito di un rapporto malato, e che alla fine farà diventare il bambino rapito, per un malinteso senso di gratitudine, un uomo ed un sacerdote afflitto da gravissime nevrosi, causate dalla profonda ed intima contraddizione dell’esistenza che disumanamente gli era stata imposta.
Infatti, il bambino Edgardo farà del suo meglio per apprendere, in fretta e bene, la dottrina cattolica, ritenendo che la catechizzazione fosse la via che più rapidamente lo potesse riportare a casa e restituire ai suoi fratelli ed ai suoi genitori. Successivamente, da giovane, ormai non disporrà della necessaria libertà mentale, nè di una forza tale per insorgere e spezzare quella tela di ragno in cui era stato spinto contro la sua volontà. Se appena giunto presso la Casa dei Catecumeni, in Roma, luogo dove venivano accolti i bambini che avevano avuto la sua stessa sorte, era riuscito a mantenere un attegiamento distaccato durante la prima visita del padre, spinto dall’ansia di apparire eccellente agli occhi del suo vigile istitutore, invece crollerà subendo una insanabile lacerazione quando sarà la madre, incredula rispetto all’atteggiamento del figlioletto, a volerlo incontrare.
Quella visita ed il distacco, a forza, sarà uno strappo, un’ insanabile ferita nella quale la madre precipiterà per cercarvi una prematura morte, mentre il figlio porterà dentro di sè una eguale rispondente piaga, pronta a sanguinare ad ogni occasione, con manifestazioni che saranno frequenti sino alla fine della sua discutibile vita di prelato, caratterizzata da eccessi ed intemperanze. Il film racconta, con eccezionale eloquenza, un episodio, certamente vero e documentato dagli atti del processo, che il novello regno d’Italia intraprese contro l’inquisitore, che aveva imbastito il rapimento.(…CONTINUA SU QDS.IT).