Intervista

L’arcivescovo Lorefice: “Scelte forti che tardano ad arrivare”

A pochi giorni dal 30° anniversario dell’omicidio di don Pino Puglisi, il QdS ha parlato con don Corrado Lorefice, arcivescovo metropolita di Palermo per capire se il suo messaggio e la sua eredità morale rappresentino ancora oggi un cammino da percorrere per la città.

Trent’anni fa don Pino Puglisi sognava il riscatto di Brancaccio e di tutta la città di Palermo. Oggi il suo sogno è diventato realtà o è rimasto tale?
“Dobbiamo guardare quanto si è cercato di fare nella parrocchia e nel centro Padre Nostro. Alcune delle opere pensate da don Pino sono state realizzate ma, ancora oggi, manca lo spazio di ritrovo da lui fortemente richiesto. Non posso non pensare all’esortazione che fece alle istituzioni comunali e regionali il nostro fratello Biagio Conte prima della sua morte: ‘Ricordatevi dei più poveri e dei più piccoli’. Spero che, proprio trent’anni dopo l’omicidio di don Pino, questo possa diventare l’opportunità per mettere finalmente nero su bianco quest’esigenza. Serve un atto di concretezza, come concreta era l’opera di don Pino. Questa scelta rappresenterebbe un segnale vero del cambiamento di questa città. Siamo di fronte a una sfida educativa che non possiamo ignorare, lo chiede il territorio, lo chiede quel quartiere in cui don Pino svolgeva la sua attività pastorale”.

La società, in questi trent’anni è cambiata. Nuovi strumenti a disposizione anche dei più giovani, costituiscono un modello diseducativo. Nell’ultimo periodo abbiamo assistito a fenomeni che indicano la mancanza di rispetto dell’altro…
“Alcuni social network depistano i nostri giovani. Penso all’utilizzo dei social e ai messaggi, in ordine alla vita e alla gestione del corpo e della sessualità, che stanno creando un approccio alterato e aggressivo al tema della relazione in cui l’altro rischia di diventare una preda. Credo che quanti abbiano oggi un compito educativo, tutti gli adulti comprese le istituzioni, lo debbano assumere senza esitazioni. Il loro operato diventa un esempio con una valenza educativa forte ma, al contempo, può diventare un esempio diseducativo”.

Le periferie della città continuano a essere importanti piazze di spaccio. Abbiamo iniziato a piangere i nostri figli morti per abuso di crack e, al contempo abbiamo assistito allo scandalo dell’abuso di cocaina, scandalo che sappiamo ha coinvolto la massima istituzione siciliana, l’Ars…
“Su quest’argomento ho già avuto l’occasione di esprimere il mio pensiero. L’articolo 54 della Costituzione invoca, per chi ha ruoli istituzionali, il principio della moralità, onorando anche con il proprio stile di vita il servizio che gli è affidato. Vorrei porre l’accento sulla parola ministro, che deriva da minister che in latino significa servitore. Chi si assume il compito pubblico di fare crescere la polis, la può solo servire. Questo riporta all’opera di don Pino e alla sua vita. Il primo insegnamento è la coerenza della propria vita. A Palermo oggi i giovani sono illusi dai venditori di crack e di alcolici, venditori di una falsa felicità e di un falso concetto di libertà. Così sono doppiamente feriti perché, se da un lato si possono permettere una dose di crack a 5 euro, c’è chi in città si può permettere di spendere con cento euro per una dose di cocaina. Si tratta di avere una rinnovata consapevolezza. Voglio ricordare il prezioso lavoro che la società civile, le associazioni di volontariato e le nostre realtà ecclesiali stanno facendo con l’obiettivo di contrastare questa cultura, contro la diffusione nevrotica del crack. Solo qualche settimana fa, assieme a Francesco Zavatteri (il padre di Giulio, morto per crack il 15 settembre 2021, ndr) e questa parte della società civile abbiamo consegnato all’Ars una proposta di legge riguardante questa emergenza giovanile e mi auguro che non finisca, come tante altre proposte di legge, in un cassetto. Questa è un’emergenza che ci deve vedere impegnati concretamente”.

Un anniversario, quello di quest’anno, che è un’opportunità…
“Un’opportunità che speriamo sia colta. Non una semplice celebrazione ma l’occasione di viverla con intensità attraverso scelte concrete”.

Anche la Chiesa fa fatica a essere immune a episodi che, anche se indirettamente, la riguardano. Dalle infiltrazioni mafiose nelle confraternite, all’inchino davanti casa dei boss…
“Deve essere chiara la consapevolezza della comunità ecclesiale, perché questo rappresenta un tradimento del Vangelo. Le scelte che la nostra Chiesa ha fatto in quest’ultimo periodo, penso all’ultimo documento dei Vescovi di Sicilia e alla memoria del grido che trent’anni fa Giovanni Paolo II fece ad Agrigento o al decreto che ho fatto sulle confraternite chiedendo il casellario giudiziario per gli appartenenti, vanno in una direzione: dove c’è la Chiesa non ci può essere contiguità con le organizzazioni criminali, perché rappresenterebbe il fallimento della missione della Chiesa che deve annunciare un Vangelo e arrivare come parola di liberazione. è bene che ci assumiamo le nostre responsabilità”.