ROMA – Una recente risposta dell’Agenzia delle Entrate non favorisce certamente gli esercenti l’attività di bar e ristorante fortemente penalizzati dalla pandemia. In caso di asporto, infatti, non è applicabile l’aliquota Iva prevista per la “somministrazione”, ossia quella del 10%.
Vale la pena ricordare che, in base alle disposizioni contenute nel Dpr. 26 ottobre 1972 n.633, qualunque cessione di beni sconta l’aliquota propria del bene ceduto, ossia, normalmente, il 22%, oppure il 4%, il 5% o il 10%, se si tratta di operazioni soggette ad aliquota ridotta in base alla tabella A, parte II^, II^ bis e III allegata al medesimo decreto presidenziale.
Al n. 121 della citata parte III^ della Tabella A, è indicata la “somministrazione di bevande ed alimenti” operazione la quale, pertanto, sconta sempre l’aliquota ridotta del 10%. È chiaro che la “somministrazione” costituisce un servizio che va al di là della semplice cessione, comprendendo tutto l’insieme delle operazioni che l’esercente deve porre in essere al fine di consentire al cliente il consumo dei pasti nel suo locale.
Diverso dalla somministrazione è l’asporto dei beni, anche quando si tratta di bevande e di alimenti.
Si è posto però il problema, assolutamente di attualità in quanto legato alle attuali disposizioni che per ora limitano o vietano agli esercenti di attività di bar e ristoranti la somministrazione di bevande ed alimenti presso i loro locali, di capire quale aliquota Iva sia applicabile nel caso in cui, nell’impossibilità di svolgere la normale attività di somministrazione, l’esercente “riconverta” provvisoriamente la stessa attività in quella dell’asporto.
Ed al riguardo, con una interrogazione parlamentare (Atto Camera a Risposta scritta pubblicata Mercoledì 18 novembre 2020 – Commissione VI Finanze 5-05007) gli Onorevoli interroganti, con riferimento alle disposizioni che, per motivi di contenimento dei rischi di contagio da Covid-19, hanno previsto la chiusura anticipata di bar e ristoranti permettendo dopo le 18.00 unicamente il servizio da asporto, hanno segnalato la differenza di percentuali Iva esistente sul servizio al tavolo (10 per cento) e quello da asporto (22 per cento) ed hanno chiesto di sapere se non si ritenga opportuno allineare l’aliquota da asporto a quella da tavolo così da evitare ulteriori aggravi a carico dei consumatori.
La risposta del Governo, per la verità, non è stata molto chiara. È stata tuttavia abbastanza vicina all’interpretazione più favorevole ai contribuenti penalizzati dalla pandemia.
È stato affermato, infatti, con una interpretazione peraltro in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, che, tenuto conto che con la riduzione dei coperti per il rispetto degli stringenti vincoli igienico-sanitari per la somministrazione in loco degli alimenti, la vendita da asporto e la consegna a domicilio rappresentano modalità integrative mediante le quali i titolari dei suddetti esercizi possono svolgere la loro attività, anche se dotati di locali, strutture, personale e competenze astrattamente caratterizzanti lo svolgimento dell’attività di somministrazione, abitualmente svolta dagli stessi, entrambe le ipotesi possono rientrare nell’applicazione delle aliquote ridotte ai sensi del punto 12-bis o ai sensi del punto 1 dell’allegato III della direttiva Iva che elenca beni e servizi ai quali è possibile applicare l’aliquota ridotta in conformità dell’articolo 98 della direttiva Iva.
La soluzione del problema, tuttavia, è apparsa ancora più difficile e lontana da quella precedentemente citata, quando l’Agenzia delle Entrate, con Risposta ad Interpello n. 581 del 14 dicembre 2020, ha manifestato il proprio avviso secondo il quale, in assenza degli elementi che caratterizzano la somministrazione di bevande ed alimenti, l’operazione economica non può che configurare una cessione di beni con asporto.
Pertanto, anche in caso della possibile coesistenza commerciale nello stesso locale delle attività di somministrazione e di vendita, gli alimenti e le bevande non forniti nell’ambito di un più ampio concetto di “somministrazione”, costituiscono una cessione e non una prestazione di servizio.
Conseguentemente, secondo l’Agenzia, qualora il consumo non avvenga presso i locali dell’esercente, le cessioni degli alimenti e delle bevande devono essere valutate separatamente dal punto di vista dell’applicazione dell’Iva e assoggettate ciascuna all’aliquota propria (ridotta o ordinaria), dovendosi altresì escludere che una delle cessioni di beni inserite nella confezione configuri un’operazione principale, agli effetti dell’Iva, rispetto alle altre cessioni.
Quindi, per fare un esempio, in caso di asporto o consegna a domicilio di un pranzo completo, si pagherà l’Iva al 10% per l’acqua minerale, al 4% per il pane, al 10% per un piatto di pasta (preparazione alimentare), sempre al 10% per la carne o il pesce, al 4% per i formaggi, al 22% per le aragoste, gli astici o le ostriche, al 4% per la frutta fresca, al 22% per il vino, la birra o la coca cola.
Insomma, una risposta, quella dell’Agenzia delle Entrate, non conforme a quella fornita dal Mef in occasione della risposta all’interrogazione parlamentare, una risposta che certamente non favorisce l’attività di tanti contribuenti i quali, non per loro volontà ma impediti per legge a svolgere la loro abituale attività di somministrazione di bevande ed alimenti, cercano di trovare una soluzione per continuare a lavorare evitando ulteriori conseguenze per la loro attività e per i propri dipendenti.
Ma il Legislatore non è un robot. È vero che la legge normalmente non disciplina casi specifici, ma in questo caso la necessaria capacità di discernimento non può non portare ad una giusta riflessione sulla questione.
Quindi, un chiarimento legislativo, magari in uno dei Decreti Ristori in corso di conversione, è assolutamente indispensabile, consentendo, anche nel caso di “asporto necessitato”, e comunque durante il periodo emergenziale, l’applicazione dell’aliquota del 10% prevista per la somministrazione, sia per non aumentare il peso fiscale delle operazioni svolte in questo particolarissimo momento, ma anche per evitare agli esercenti interessati inutili e costose complicazioni amministrative che, sempre in questo periodo, è assolutamente consigliato di evitare.