È in un clima di grande incertezza, polemica e perplessità che oggi approderà nell’Aula del Senato il disegno di legge sull’Autonomia differenziata.
Il ddl Calderoli dopo sei mesi di discussione in Commissione Affari costituzionali inizia l’iter della prima lettura, dopo aver superato momenti di tensione tra le forze di maggioranza e le opposizioni. I lavori in prima commissione hanno fatto registrare una sessantina di audizioni, decine e decine di documenti acquisiti con pareri ‘tecnici’, per un totale di 649 sedute e il voto su 385 emendamenti, di cui 83 sono stati approvati, di questi la metà arrivati dalle opposizioni.
L’Aula verrà chiamata a valutare ben 337 emendamenti e 6 ordini del giorno: “ma quelli della maggioranza, tutti di Fdi, sono una manciata”, assicura il leghista che nega frizioni in maggioranza. “Io penso che all’interno della maggioranza non ci dovrebbero essere problemi perché c’è stata una discussione molto ampia in Commissione, in quella sede sono stati approvati più di 80 emendamenti di cui più o meno la metà dell’opposizione e metà della maggioranza”, ricorda.
Di certo le opposizioni non faranno sconti su una legge che viene accusata di spaccare il Paese, tra Nord e Sud, ricchi e poveri. “Io credo che la loro sia una posizione più di natura politica che nel merito del provvedimento, tanto è vero che se oggi portiamo all’approvazione” la riforma “è grazie alla riforma costituzionale del titolo quinto che è stata varata nel 2001 da parte del centrosinistra. Tra l’altro l’unica riforma costituzionale delle tre importanti degli ultimi decenni che ha avuto poi il via libera popolare, mentre la devolution e la riforma di Renzi, sono state bocciate”.
Il senatore leghista non ha dubbi: “La legge è molto equilibrata – assicura – perché prevede non l’utilizzo della spesa storica ma dei Lep. Quindi veramente è una legge, io ritengo, assolutamente equilibrata che dà garanzia a tutti”.
Da qualche tempo, segnatamente da quando è stato avviato il tema della cosiddetta riforma del premierato, è tornata di attualità un’altra possibile riforma, quella della cosiddetta “autonomia differenziata”, fortemente voluta dalla Lega ed in particolare dal ministro Roberto Calderoli, sin dal governo Berlusconi IV, con la legge 5 maggio 2009, n. 42, quando venne normato un primo progetto definito “federalismo fiscale”, il quale, però, non riuscì a raggiungere gli obiettivi perequativi che sembrava volesse ottenere.
Alla luce della recente riapertura del dibattito politico in materia, il dato di fondo che spesso non viene sufficientemente preso in considerazione, forse per motivi di carattere strumentale, non è tanto, infatti, quello che riguarda il modello di organizzazione istituzionale e dunque dei poteri e delle risorse attribuite alle varie regioni, bensì quello perequativo, infrastrutturale e dei servizi, dal quale si tenta di sfuggire.
Ma andiamo con ordine.
Il federalismo fiscale è una dottrina politico-economica volta ad instaurare una proporzionalità diretta fra le imposte riscosse da un certo ente territoriale (Stato – Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni) e le imposte effettivamente utilizzate dall’ente stesso.
Il processo di riduzione delle competenze dello Stato e la loro contemporanea attribuzione alle Regioni e agli altri Enti locali si chiama “devoluzione”, un termine che, nel parlare politico e giornalistico, viene oggi spesso sostituito da “federalismo” e, nella materia delle imposte, da “federalismo fiscale”.
In passato, il principio di autonomia fiscale locale era indicato semplicemente come “autonomia finanziaria”, tracciato solo sommariamente nella Costituzione del 1948, la quale lasciava al legislatore ordinario ampia libertà nel definire l’assetto dei tributi locali.
Ciò aveva portato ad un sistema finanziario locale e regionale costituito quasi integralmente da trasferimenti statali, vale a dire dalla cosiddetta “finanza derivata”.
Oggi, a seguito della riforma del Titolo V, risalente al 2001, l’autonomia finanziaria trova più compiuta definizione nell’art. 119 della Costituzione, che ne contiene i princìpi, tra cui quello “dell’autonomia di entrata”, ovvero di autonomia nella gestione dei tributi e “di autonomia di spesa”, ovvero autonomia nell’allocazione delle risorse nei vari capitoli derivanti dall’esercizio delle funzioni dell’ente.
Altri principi importanti indicati dal citato articolo 119 sono il criterio della “territorialità del tributo”, nonché l’indicazione degli strumenti tramite i quali l’autonomia fiscale deve concretizzarsi: tributi propri locali e regionali; compartecipazione al gettito di uno o più tributi statali; trasferimenti a titolo perequativo nei confronti dei territori a minore capacità fiscale; trasferimenti “straordinari” di risorse, effettuati dallo Stato nei confronti di singoli Comuni, Province, Città metropolitane o Regioni.
Un altro principio cardine dell’art. 119 della Costituzione è il principio solidaristico il quale prevede l’onere per lo Stato di istituire un fondo perequativo atto ad evitare che l’attuazione dell’autonomia fiscale possa pregiudicare i territori finanziariamente più deboli. Tuttavia, anche in questo caso, la sua attuazione è risultata particolarmente claudicante e contraddittoria.
Ecco il punto: a causa della mancata attuazione di varie parti della legge 5 maggio 2009, n.42, inclusa, ed in particolare, la mancata definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni da garantire a qualsiasi cittadino su tutto il territorio nazionale, come previsto dall’art. 3 e dall’art.117 della Costituzione, e dei corrispettivi Fabbisogni Standard da attribuire a Regioni ed Enti locali, non si è ancora pervenuti all’istituzione di tributi locali e regionali autonomi.
Questo elemento, congiuntamente al divieto imposto alle Regioni di istituire, tramite leggi proprie, tributi inerenti a presupposti d’imposta già coperti da tributi statali, ha comportato che la legge sul “federalismo fiscale” rimanesse, nei fatti, quasi del tutto inattuata, permanendo in larga parte il previgente sistema di finanza locale derivata, più comunemente definito della “spesa storica”.
La mancata piena attuazione della legge 42/2009, quindi, ha provocato notevoli problemi per la tenuta delle aree economicamente più deboli del Paese, Mezzogiorno in testa, e per l’auspicato avvio di un sistema di perequazione territoriale delle risorse e quindi delle infrastrutture e dei servizi.
L’effetto è stato, ed è ancora, molto grave poiché, dal 2009 ad oggi, un tale ritardo è costato al Sud circa 100 miliardi di interventi ordinari, ma soprattutto perché il mancato calcolo dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, e dei relativi standard di erogazione, ha fatto crescere la differenza della qualità della vita tra le regioni ricche, che sono diventate ancora più ricche, e le regioni povere, che sono diventate ancora più povere, senza permette l’avvio di quel virtuoso processo perequativo di cui si è detto ed auspicato.
Insomma, volendo sintetizzare il concetto: parlare di autonomia senza aver definito i presupposti finanziari sulla quale poggiarla, o peggio, senza aver livellato ed armonizzato la quantità e la qualità delle infrastrutture e dei servizi per abitante e per chilometri quadrato, significa tradire, ancora una volta, le messianiche attese del Mezzogiorno.