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Valorizzare le nuove tecnologie per raccontare l’Italia in numeri

Gian Carlo Blangiardo è presidente dell’Istat dal 4 febbraio 2019. Docente di Demografia all’Università degli studi di Milano Bicocca dal 1998, iniziò la carriera universitaria nel 1973 come borsista di Statistica in Università Cattolica e, dal 1975, come ricercatore dell’Università degli studi di Milano. Nella stessa università, venne nominato professore incaricato (1978-1981), professore associato (1981-1994) e professore ordinario (1994-1998). Ha al suo attivo collaborazioni scientifiche con diverse istituzioni. È stato presidente della Commissione Istat sugli aspetti tecnici e metodologici del Censimento della popolazione 2001 (1999-2002) e componente del Comitato per la stima della povertà assoluta (2006-2007). Ha, inoltre, fatto parte delle Commissioni Istat sulla misura del Benessere oltre il Pil (2011-2016) e per la definizione dei Collegi elettorali plurinominali (2015). È membro di diversi Comitati nazionali e regionali, che si occupano, o si sono occupati, di dinamiche e trasformazioni demografiche, di esclusione sociale e povertà. È anche autore di diversi Rapporti su questi temi e su immigrazione e integrazione.

Quante persone lavorano oggi all’Istat?
“Circa 2.300, di cui gran parte a Roma e il resto nelle sedi territoriali e regionali. Copriamo tutte le regioni, ma gli uffici di riferimento funzionano a piccoli grappoli. Per esempio, il dirigente per la Sicilia copre anche la Sardegna, dove comunque c’è un ufficio. Sul territorio teniamo rapporti con gli Enti locali, facciamo parte del Sistan, il Sistema statistico nazionale insieme a tutte le maggiori Amministrazioni pubbliche nazionali e locali. È una rete nata nel 1989, che fa sì che le informazioni possano circolare, si scambino dati, occasioni di incontro e valorizzazione di esperienze. Lavoriamo tutti dalla stessa parte per fare informazione a livello di Paese”.

L’Istat è da sempre una fonte autorevole e preziosissima di informazioni. Come si sta evolvendo il vostro lavoro e in che modo ha influito la digitalizzazione sulla raccolta dei dati e sui tempi di elaborazione?
“L’Istat è, ovviamente, al passo con i tempi. In precedenza il nostro ruolo era quello di raccolta dei dati che provenivano spesso da fonti amministrative: i nati, i morti, e tutto ciò che aveva a che fare con le registrazioni ufficiali. A queste fonti ogni tanto affiancavamo rilevazioni censuarie, il censimento della popolazione o per esempio delle industrie, che si faceva ogni dieci anni. C’era cioè questa idea della fonte tradizionale che era quella amministrativa, e della rilevazione, che era occasionale anche se comunque importante. Questa cosa si è piano piano modificata e nel tempo hanno iniziato a comparire delle rilevazioni non più ogni dieci anni ma con tempi più ridotti, portando quindi più continuità e ampliando l’offerta di informazioni che mettevamo a disposizione di tutti. Successivamente, ci si è resi conto che le fonti amministrative, con la tecnologia di oggi possono usare grandi masse di dati di fonte amministrativa e farli interagire con quelli provenienti dalle indagini dirette. Quindi è nato il Sistema dei Registri: l’idea è stata quella di mettere insieme informazioni raccolte in modo veloce, automatico e garantito. Il dato registrato e recuperato viene messo in relazione con altri dati e formano un insieme d’informazioni che si integrano e si valorizzano reciprocamente, e che peraltro hanno in genere il pregio della qualità. Su questo punto stiamo lavorando da alcuni anni e finora siamo riusciti a ottenere ottimi risultati”.

Quali sono i passaggi successivi?
“Consolidare il Sistema dei Registri e integrarlo con dati di nuove fonti come per esempio i Big Data”.

In che modo avete favorito il cambiamento all’interno dell’Istat?
“È un processo iniziato da altri, non me ne prendo il merito, ma sta andando avanti e stiamo portando a casa i risultati. Un caso classico è quello del censimento della popolazione. Su tutti i libri, anche sul manuale di demografia che ho scritto io a suo tempo, si diceva che il censimento era una cosa che veniva fatta ogni dieci anni, negli anni che finiscono con il numero 1. Ecco, non è più così. Se l’ultimo censimento è del 2011, il prossimo non è nel 2021: ne è stato fatto uno nel 2018 e nel 2019. Praticamente ogni anno, utilizzando questo gioco di prendere le informazioni che già abbiamo in casa e avviare un campione. Quest’anno credo che il campione sia stato di circa un milione 300 famiglie, su un totale di 26 milioni di famiglie in Italia. Sostanzialmente se ne prende una parte e si fanno ruotare in modo tale che nel decennio tutte siano in gioco. Con quest’operazione siamo praticamente in grado di avere una fotografia aggiornata annualmente. Provi a immaginare il vantaggio: ricordo al tempo dei miei primi incarichi universitari quando uscivano i dati del censimento si attendevano le prime tavole provvisorie, poi i volumi enormi, ecc… Se l’ultimo era quello del 1971, pur con il passare del tempo tutti andavano a prendere quei dati lì, sia che fosse il 1978, il 1979, il 1980 o anche il 1981, perché magari il nuovo censimento c’era stato ma non era ancora uscito. Oggi abbiamo la possibilità di avere questa fotografia a distanza di poco tempo e di confrontare i dati. Si tratta di dati ed elementi di grande rilievo, e oltretutto che di volta in volta adattiamo a esigenze nuove”.

Diffondere conoscenza vuol dire anche mettere le istituzioni di fronte alle loro responsabilità…
“Tra le domande del censimento ce n’è una che chiede, nell’ambito del rilevamento delle abitazioni, se la casa ha un accesso esterno per una persona che sta su una carrozzella e se l’ascensore ne consente l’ingresso. Può sembrare banale, ma in questo modo noi abbiamo l’occasione di raccogliere casa per casa un’informazione che ci dice chi ci vive, e sappiamo anche se quell’abitazione in cui vive una persona con mobilità ridotta non ha i servizi per liberarla dalla prigione che è diventato il suo appartamento. È un’informazione che, trasmessa a chi di dovere, se questi ne tiene conto, migliora la qualità della vita dei cittadini. E credo che questo sia il nostro scopo. A noi interessa misurare con professionalità ciò che sta accadendo, confrontarlo nel tempo e nello spazio e metterlo a disposizione di chi deve decidere”.

All’opinione pubblica interessano molto le stime riguardanti fenomeni come l’evasione. Quanto sono affidabili?
“La zona grigia esiste. Recentemente abbiamo presentato un report sull’economia non osservata, si parla di circa 113 miliardi. Naturalmente sono stime, ma sono fatte mettendo insieme tutti gli indizi, cercando di vedere quanto sono coerenti e con opportuna modellistica e metodologie adeguate si tirano fuori delle valutazioni che sono abbastanza affidabili”.

Spesso i dati economici per regione non sono recentissimi. Avete in programma di accorciare i tempi?
“Più si richiedono informazioni disarticolate e procedure di elaborazione raffinate e verificate, anche perché la tempestività deve essere legata alla qualità. Spesso, inoltre, soprattutto per quanto riguarda i grandi confronti, anche se il dato non è riferito a ieri ma è abbastanza vicino, l’informazione rimane valida”.

Meglio informazioni attendibili ma meno recenti che più recenti ma meno attendibili, come per esempio accade con i sondaggi…
“I sondaggi ci raccontano il mondo con un campione di mille interviste fatte al telefono alle 2 del pomeriggio, quando la gente è fuori a lavorare. L’Istat non si è mai sbilanciata in cose su cui non aveva una garanzia rispetto alla qualità. Il discorso della qualità è prioritario, vuoi per stile professionale, per standard che è sempre stato seguito, vuoi perché ci sono anche delle forme di controllo. Molti di questi dati sono inseriti nel circuito dell’Eurostat, di cui siamo partner. Ci sono quindi degli standard di qualità e coerenza definiti per rendere comparabili i dati di diversi Paesi”.

Con che metodo fate le indagini?
“Dipende. Ci sono indagini che vengono fatte telefonicamente, altre identificando i soggetti e andando lì con il computer per prendere i dati. Quello che secondo me qualitativamente un po’ ci differenzia dal mercato è che noi in genere operiamo con numeri più grandi, i nostri campioni sono più robusti e abbiamo uno staff di soggetti che si occupa delle metodologie molto qualificato. Non basta avere il dato campionario: se hai un campione di 5 mila famiglie su 26 milioni ma lo vuoi proporre come rappresentativo di tutti gli italiani, devi sapere quali operazioni fare per trasformare quel dato, che è per sua natura variabile perché campionario, in un dato la cui variabilità si è decisamente ridotta. È la metodologia che consente di fare questo piccolo tocco magico. In questo senso all’Istat ci sono 93 anni di tradizione e professionalità”.