La Sicilia e il Mediterraneo continuano ad essere nella morsa del clima. Se non si interviene il più velocemente possibile con le azioni di mitigazione delle emissioni di gas climalteranti e con le azioni di adattamento si potrebbe raggiungere effettivamente un punto di non ritorno. Punto che è sempre più vicino di fronte all’inazione politica, istituzionale e civile. È quanto risulta dal secondo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) dedicato agli impatti, all’adattamento e alla vulnerabilità. “Il rapporto – ci ha spiegato in esclusiva Piero Lionello (leggi intervista sotto), responsabile del centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici dell’Università del Salento – mostra come l’area mediterranea si sia riscaldata maggiormente della media globale rispetto al periodo preindustriale (circa 1,5°C rispetto a 1.1°C). Questo in combinazione al corrispondente aumento delle ondate di calore ha prodotto effetti sulla composizione delle specie pescate, sui tempi di maturazione di alcuni raccolti, su mortalità di massa in ambiente marino, disagio termico delle popolazioni. Inoltre, l’aumento del livello del mare, che ha raggiunto a scala regionale mediterranea i 2.8mm all’anno a partire dagli anni 90, ha contributo all’erosione delle coste”.
Dal punto di vista strettamente legato all’aumento delle temperature la situazione siciliana potrebbe far tirare un sospiro di sollievo. “La Sicilia, da questo rapporto, ne esce bene e male allo stesso tempo”, ha dichiarato il delegato all’emergenza climatica dell’Università di Catania, Christian Mulder. “Quello che c’è di brutto era già risaputo. Quello di bello, invece, riguarda l’aumento della temperatura media annua. A Palermo e Catania – ha continuato – negli ultimi 30 anni si è registrato un aumento di un grado, mentre nelle città del nord si è arrivati anche a quattro gradi. Questo nonostante il picco di 48,8 gradi raggiunto a Floridia l’anno scorso”. Se da un lato l’aumento delle temperature medie annue potrebbe sembrare contenuto per la Sicilia, dall’altro aumenta seriamente il rischio di eventi estremi e di inondazioni causati dalle caratteristiche geografiche dell’Isola.
“Gli eventi estremi, le inondazioni in particolare, – ha spiegato Mulder – saranno sempre più imprevedibili e frequenti. Eventi come i tornadi saranno di ordinaria amministrazione perché la Sicilia è la zona dove si scontra il fronte atmosferico africano con quello europeo: la zona atlantica composta da temperature invernali, il fronte africano da temperature elevate. In un periodo di caldo molto lungo aumenta l’evaporazione del mare, l’acqua si condensa nell’atmosfera e prima o poi viene giù con il fenomeno delle bombe d’acqua. Ma questo fenomeno accade dal Medioevo, non è nulla di nuovo. Adesso, però, bisogna fare i conti con edilizia e cementificazione esagerate che hanno aumentato a dismisura il problema”. Cementificazione che deve essere vista come una forma di desertificazione “in quanto il suolo consumato non respira più”. La conseguenza diretta di queste dinamiche, oltre al concreto rischio che le persone corrono durante gli eventi estremi, è la carenza idrica. “A livello globale – ha aggiunto Mulder – le precipitazioni rimangono sempre costanti ma sono concentrate in pochi giorni o poche settimane. Prima erano sparse in diversi mesi. Quando piove, quindi, l’acqua si perde e non viene trattenuta dal suolo”.
Secondo una mappatura effettuata dalla protezione civile nel 2014 e che recentemente è tornata alla ribalta in seguito ai drammatici eventi atmosferici di Catania e Siracusa, le zone a rischio di inondazione e alluvione in Sicilia sono più di settemila. La provincia con il maggior numero di punti a rischio è Messina. Qui sono state individuate ben 2.057 zone pericolose, il 29% di tutta la regione. Segue il palermitano con 1.214 criticità che corrispondono al 17% regionale, poi Agrigento con 830 punti a rischio (12% del totale). Al quarto posto c’è Catania con 721 zone pericolose, il 10% dell’intera regione. Seguono Caltanissetta (700 nodi), Enna (627), Trapani (426), Siracusa (338), Ragusa (266). Numeri allarmanti che riguardano le aree in cui i corsi d’acqua sono ostacolati da vegetazione o, più spesso, da elementi antropici come case, strade o sbarramenti. Si potrebbe pensare che un censimento risalente al 2014 non abbia niente a che fare con l’attuale rischio legato al cambiamento climatico. Tuttavia, un più recente studio effettuato da Italiasicura (struttura d’emergenza istituita dal governo Renzi) nel 2017 ha fatto una ricognizione sugli interventi più urgenti da realizzare: circa mille opere con una spesa di 2,8 milioni di euro.
Tra le conseguenze nefaste dell’aumento delle temperature vi è quello dell’innalzamento del mare che per un’isola come la Sicilia significherà rinunciare a interi tratti di costa. Stando alle stime dell’Ingv, che nei mesi scorsi ha pubblicato un rapporto in collaborazione con le Università di Catania e Bari, entro il 2100 potrebbero sparire ben dieci chilometri di spiagge lungo la Sicilia Sud-orientale, dalla Piana etnea fino a Marzamemi. Per esempio la costa di Siracusa, secondo le proiezioni, potrebbe essere invasa fino a un chilometro nell’entroterra rispetto all’attuale linea di riva. Nei casi peggiori, ovvero in assenza di una decisa riduzione di emissioni, si prefigura un innalzamento del livello marino pari a 1,12 metri entro il 2100, con la conseguente sommersione di 2,3 km quadrati di costa, coinvolgendo in modo sostanziale il porto aretuseo. Ma a subire i danni più importanti saranno le Saline del fiume Ciane, ad oggi tra le più famose riserve naturali della zona, destinate a scomparire del tutto. Sorte simile anche per Augusta e le sue aree industriali, dove le acque del mare nei prossimi ottant’anni potrebbero travolgere 0,6 km2 di territorio o addirittura 1,65 nel caso di alti livelli di inquinamento. Nel mirino, inoltre, anche l’area compresa tra i fiumi Simeto e San Leonardo, in provincia di Catania, e persino una delle zone più apprezzate dai turisti, ovvero la Riserva naturale di Vendicari, che nello scenario peggiore potrebbe perdere un terzo del proprio territorio.
“C’è stato un aumento del 14% del gas serra – ha osservato Mulder – ma è anche vero che nel 2020, a causa del lockdown, c’è stata una drastica diminuzione delle emissioni. Purtroppo, c’è il problema tecnico che ci sono nazioni come l’India che si rifiutano, nonostante abbiano firmato l’Accordo di Parigi nel 2015, di mantenere fede alle loro promesse”. Tuttavia, il punto di non ritorno non è ancora stato raggiunto e c’è ancora un piccolo margine di tempo per intervenire. Se non si taglieranno al più presto le emissioni di gas climalteranti, secondo il rapporto dell’Ipcc, molti luoghi diventeranno invivibili. A cominciare dalle città, luoghi in cui gli impatti dei cambiamenti climatici sono amplificati.
“C’è ancora tanto che possiamo e dobbiamo fare per invertire a rotta – ha spiegato Mulder -. Il problema è che adesso ci sono tante altre variabili che dipendono da equilibri geo politici che possono implicare grandi problemi. Per esempio, la riapertura delle centrali a combustibili fossili italiane”. Un problema che non riguarda direttamente la Sicilia, in quanto la riapertura interesserebbe maggiormente le zone del nord Italia, ma che metterebbe seriamente a rischio la corsa all’adattamento e al taglio delle emissioni. “In Germania non è stato posto questo problema di fronte alla crisi Ucraina – ha spiegato Mulder -, anzi si è deciso di raddoppiare la produttività dei pannelli solari entro il 2035 e di raggiungere le emissioni zero, per quello che riguarda l’energia, entro il 2040. L’intensità della radiazione solare in Germania è meno della metà rispetto a quella siciliana in estate (in inverno è addirittura un quarto). Questo ci dovrebbe fare pensare di investire veramente nel fotovoltaico e nelle altre rinnovabili”.
Gli investimenti nelle energie green, però, al momento sembrano essere bloccati non solo dalla burocrazia ma anche da cittadini e istituzioni Nimby. Iter estremamente lunghi e prese di posizione, insomma, potrebbero condannare la Sicilia non solo alla schiavitù energetica, ma anche a non contribuire alla lotta al cambiamento climatico. Situazione che rende sempre più difficile anche l’attuazione degli interventi di adattamento, ad oggi pressoché inesistenti in Sicilia. “Bisogna investire – ha concluso Mulder – quanto più possibile nelle rinnovabili. È questo anche uno dei motivi per cui è nato il Pnrr. Quindi la motivazione c’è e al momento ci sono anche le possibilità. Bisogna solo cogliere il momento giusto perché non sappiamo come si svilupperà la situazione nell’Est europeo”.
Il Mediterraneo è una delle zone più critiche quando si parla di cambiamento climatico. L’aumento delle temperature e l’innalzamento del mare, in questa zona, sono più elevati rispetto agli stessi fenomeni visti su scala globale. Questo perché il mar Mediterraneo è un vero e proprio “hotspot” del climate change e dei suoi effetti. A spiegare la situazione climatica di questa zona geografica è Piero Lionello, uno dei maggiori esperti di cambiamento climatico in Italia che si è occupato anche di tradurre il recente rapporto dell’Ipcc.
Professore Lionello, quali sono i principali rischi causati dal cambiamento climatico per l’Europa mediterranea?
“Il rapporto identifica quattro categorie di rischi-chiave per la regione europea. Rischi per popolazioni e ecosistemi prodotti dalle ondate di calore; rischi per la produzione agricola prodotti da una combinazione di caldo e siccità; rischi di scarsità di risorse idriche per le popolazioni prodotti dalla diminuzione delle precipitazioni in combinazione con un aumento dell’evapotraspirazione; rischi per le persone e le infrastrutture derivanti dalle inondazioni costiere (prodotte dal generale aumento del livello del mare), fluviali e pluviali (prodotte dall’aumento di precipitazioni estreme in alcune aree). Nel contesto Europeo, le caratteristiche climatiche e vulnerabilità socioeconomiche della regione Mediterranea rendono i rischi prodotti da ondate di calore, scarsità delle risorse idriche e inondazioni costiere particolarmente gravi e le azioni di adattamento urgenti”.
Quali sono gli scenari futuri previsti?
“Il rapporto dell’Ipcc non ha lo scopo di prevedere il futuro, ma di descrivere le conseguenze di una varietà di percorsi possibili, che si distinguono per entità dell’alterazione del clima e il percorso socio-economico a scala globale. Uno scenario privilegia la mitigazione del cambiamento climatico e il raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile, un altro punta allo sviluppo economico senza ridurre l’utilizzo di combustibili fossili confidando in soluzioni tecnologiche per gestire i problemi ambientali. Lo scenario che determina i maggiori rischi è quello che evita la concertazione adottando soluzioni a scala nazionale o regionale a scapito dello sviluppo globale. Il percorso futuro, e a quale livello in un intervallo compreso fra 0.9 e 5.6°C sarà l’aumento della temperatura nel Mediterraneo, dipende dalle scelte di governi e cittadini”.
Qual è la strada per evitarli?
“Sono disponibili strategie di adattamento per limitare i rischi: l’efficace approvvigionamento l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, le difese di tipo ingegneristico ed ecosistemico contro le inondazioni, soluzioni a livello di singoli edifici e struttura urbana contro le ondate di calore, cambiamento delle abitudini e degli stili di vita, protezione dell’ambiente e degli ecosistemi. Tuttavia, l’efficacia di tutte queste azioni di adattamento diminuisce con il livello di riscaldamento, all’aumentare del quale aumentano i costi ed emergono rischi residui, non eliminabili. Quindi il taglio delle emissioni e la riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili è al momento essenziale per consentire un efficace adattamento”.