Il 2022 è stato l’annus horribilis degli eventi climatici estremi. Nei dodici mesi appena trascorsi – rivela il bilancio dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente – se ne sono registrati 310. L’incremento rispetto al 2021 si attesta ad un emblematico +55%. Da lunghi periodi di siccità e di caldo estremo a eventi quali mareggiate, alluvioni, grandinate. Da Nord a Sud il nostro Paese è stato ripetutamente colpito da fenomeni estremi. Ingenti i danni causati, drammatico il bilancio delle morti, che sono state 29. Nel dettaglio, da gennaio a dicembre, si sono verificati 104 casi di allagamenti ed alluvioni da piogge intense, 81 casi di danni da trombe d’aria e raffiche di vento, 29 da grandinate, 28 da siccità prolungata, 18 da mareggiate, 14 eventi con l’interessamento di infrastrutture, 13 esondazioni fluviali, 11 casi di frane causate da piogge intense, 8 casi di temperature estreme in città e 4 eventi con impatto sul patrimonio storico.
Frequentemente i fenomeni qui elencati hanno causato danni a due o più categorie. Vale a dire ad esempio che – spiega il rapporto – le alluvioni fluviali o gli allagamenti da piogge intense hanno spesso determinato danni alle infrastrutture. La mappa del rischio, sulla scorta di quanto affermato ed osservato in precedenti studi dell’associazione ambientalista, è più o meno uniforme su tutta la penisola, ma esistono aree più colpite da determinati eventi climatici. Primatista in questa triste classifica è il Nord, seguito dal Sud e dal Centro. Guardando alle Regioni la più colpita, con 37 casi registrati, risulta essere la Lombardia, che precede Lazio (33) e Sicilia (31). Quanto alle Provincie, infine, Roma è la più colpita con 23 eventi nel 2022, davanti a Salerno con 11 e Trapani con 9. Protagonisti assoluti del clima estremo nel 2022, però, sono stati le ondate di calore e la siccità. A questo proposito possiamo citare l’anomalia della temperatura media (+3,3° C) registrata a giugno. Queste ondate di calore hanno causato un eccesso di mortalità in tutto il paese con Catania (+49%) tra le città colpite. Quanto alla siccità il dato nazionale racconta di un’anomalia da gennaio a giugno, data dal decremento del 44% delle piogge, pari a circa 35 miliardi di metri cubi in meno di acqua.
In questo rapido excursus nazionale sono emersi più volte esempi riguardanti la Sicilia, che rientra tanto nel novero delle regioni più colpite dagli eventi estremi nel 2022, quanto tra le aree maggiormente esposte ai rischi dei cambiamenti climatici. Si pensi alle ultime due estati e in particolare a quella del 2021, scandita da temperature ben oltre la media e dal “presunto” record europeo registrato a Siracusa (48,8°). Periodi di caldo anomalo che portano a gravi fase siccitose interrotte – in maniera altrettanto nefasta – dalle devastanti “bombe d’acqua”.
Un combinato disposto potenzialmente mortifero per un settore come l’agricoltura, che va peraltro considerato a braccetto con il degrado del suolo, fenomeno ormai di lungo corso. La Sicilia è – in termini assoluti – la regione con la superficie degradata maggiore, pari a 1,87 milioni di ettari. In questo contesto va collocata la preoccupante diminuzione del contenuto di carbonio organico nel suolo. Anche in questo caso, purtroppo, l’Isola “spicca” su scala nazionale. Altra questione dirimente, per la stessa natura fisica della nostra regione, è quella relativa all’erosione costiera e all’“arretramento” dei litorali che viaggia ad un ritmo sempre più sostenuto e che – secondo le più recenti stime – riguarda oltre il 60% delle coste siciliane.
Un dato, questo, strettamente legato all’innalzamento del livello del mare. Le stime non sono incoraggianti e, per il periodo 2036 – 2065, sono pari a 17 cm nel Mar Ionio e nel canale di Sicilia. I dati sembrerebbero dunque raccontare un’emergenza diventata ormai consuetudine. Per cui, se possono essere importanti le richieste avanzate da Legambiente, lo sono certamente altrettanto le azioni di adattamento e messa in sicurezza del territorio che i governi, anche a livello strettamente locale, possono mettere in campo per mitigare e magari evitare il ripetersi di determinate tragedie. La recente conferenza sul clima Cop27 ha infatti plasticamente dimostrato quanto sia difficile elaborare ed attuare una strategia comune. Non a caso, nel commentare i “non – esiti” di quell’evento, parlammo di “fiera dell’irresponsabilità”. Certo, le strategie di azione globale non vanno abbandonate, ma è altrettanto importante agire ai livelli intermedi.
Il governo italiano può, ad esempio, muoversi ad ampio raggio come osserva Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente che chiede cinque azioni urgenti, da attuare nei primi mesi del 2023, all’Esecutivo Meloni: “Una veloce approvazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), lo stanziamento di risorse adeguate per attuarlo, l’aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) agli obiettivi Ue sulla riduzione dei gas climalteranti, nuove semplificazioni per gli impianti a fonti rinnovabili e la conseguente accelerazione degli iter autorizzativi”.
Proprio il Pnacc – recentemente pubblicato dal ministero dell’Ambiente – avrà un ruolo fondamentale nei prossimi anni. Questo prevede una serie di azioni volte a contrastare i rischi di eventi estremi e rendere le nuove condizioni climatiche un’opportunità. Nel documento prodotto dal ministero se ne contano 361 ed hanno ratio e caratteristiche profondamente differenti. Citiamo, in relazione ai fenomeni fin qui analizzati, quelle che prevedono – ad esempio – l’adozione di un’agricoltura conservativa, la costruzione di strutture contro la penetrazione di acqua salina nelle falde, l’innalzamento della linea costiera e la costruzione di dune artificiali contro l’erosione, ma anche il mantenimento e il ripristino della vegetazione ripariale ed esturiale e la conversione di terreni a zone umide costiere.
Azioni urgenti che, tuttavia, necessitano di tempi tecnici. Come ha spiegato il dicastero presieduto da Pichetto Fratin, adesso il documento sarà sottoposto alla procedura Vas e in seguito definitivamente approvato con apposito decreto ministeriale. Nei tre mesi successivi verrà istituito un Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, che avrà a sua volta sei mesi di tempo per definire la concreta attuazione del piano. Non sarà, quindi, un processo immediato ed è dunque indispensabile ridurre al minimo i vari passaggi e fare tutto il possibile affinché si passi presto alle azioni concrete.
Le analisi fin qui condotte sugli eventi climatici estremi, ricostruiti e mappati da Legambiente, vengono ampliate e rafforzate dai dati forniti da Enea relativi al mar Mediterraneo, un’area sensibile (per numerose ragioni) e dunque da sempre sotto la lente d’ingrandimento. L’osservatorio climatico dell’agenzia sito a Lampedusa – in occasione dei suoi 25 anni – ha presentato un importante studio sull’evoluzione del clima e sulle sue variabili essenziali. La risultanza più significativa è quella relativa all’incremento della CO2 nel Mare Nostrum, aumentata – dal 1997 ad oggi – da 365 a 420 parti per milione (+ 15%), con il tasso di crescita annuale che è passato da 1.7 a 2.6 ppm/anno.
Desta preoccupazione anche l’incremento gas metano, che passa da circa 1825 a 1985 parti per miliardo, con un’impennata della crescita che nell’ultimo ventennio ha toccato l’8% (+15ppb/anno nel 2021). L’aumento medio della temperatura, perciò, è stato pari a circa 0,5° C ed è – chiaramente – andato di pari passo con frequenza ed intensità delle ondate di calore. L’incremento di anidride carbonica e l’aumento delle temperature nel Mediterraneo, spiega Alcide Di Sarra del laboratorio di Enea osservazioni e misure per l’ambiente e il clima, “preoccupa anche a causa della possibile riduzione della funzione di assorbimento della C02 in eccesso, normalmente svolta da oceano e vegetazione”.
D’altra parte il metano – osserva il ricercatore Enea Damiano Sferlazzo – è un sorvegliato speciale “per il suo ruolo importantissimo nel raggiungere gli obiettivi dei protocolli internazionali sul clima, tenuto conto che ha una capacità di riscaldamento da 30 a 80 volte maggiore rispetto alla C02”. Il territorio di Lampedusa ha un ruolo strategico (per le ridotte dimensioni dell’isola, l’assenza di rilievi, la posizione geografica) nel monitoraggio del comparto marino, ma anche di quello atmosferico e terrestre. Altri dati da tenere in conto, che confermano purtroppo le tendendenze negative fin qui emerse, sono quelli registrati dall’osservatorio oceanograficho di Enea, una boa hi-tec che consente lo studio delle proprietà chimico-fisiche delle acque situata a 5 km dalla costa lampedusana. Una vera e propria sentinella del clima, che testimonia il costante aumento della temperatura media del mare. Questa, nell’ultimo secolo, è cresciuta di oltre 1.5°, molto di più della media globale. Ne consegue anche la maggiore frequenza e durata delle ondate di calore, che nel 2022 hanno portato la temperatura delle acque del Mediterraneo a toccare i 30°.
Cifre da “capogiro”, che mettono a rischio la biodiversità, modificano gli habitat di varie specie e influiscono su attività di fondamentale importanza in quest’area, come pesca ed acquicoltura oltre – ovviamente – ad avere un peso rilevante su condizioni atmosferiche ed evaporazione. Il quadro d’insieme, dunque, restituisce una situazione non certo rosea, soprattutto perché – come ha ricordato il climatologo Massimiliano Fazzini al QdS – “il bacino del Mediterraneo rappresenta l’area densamente popolata più a rischio del mondo”. Un’area intorno alla quale vivono 500 milioni di persone e il cui ambiente fisico è più vulnerabile. Si capisce, dunque, quanto sia importante l’attività di studio e di analisi dei fenomeni in corso, sia per farsi trovare pronti che per elaborare strategie di intervento.
“Questi dati – commenta a tal proposito la ricercatrice Enea Tatiana Di Iorio – mostrano la necessità di intervenire rapidamente per implementare politiche di riduzione delle emissioni di CO2 ma anche degli altri gas ad effetto serra di produzione antropica come il metano, in coerenza con gli obiettivi europei della neutralità climatica entro il 2050. Una sfida essenziale – conclude – per il futuro dell’Europa e del pianeta, e in particolare del Mediterraneo, una delle aree più sensibili ai cambiamenti climatici dove gli impatti sull’ambiente possono essere critici e che oggi più che mai è a rischio”.