Gli eventi estremi, con tutte le conseguenze che portano con sé, posono essere considerati come la cartina di tornasole più efficace della crisi climatica in corso. Il loro numero è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, soprattutto in Italia. All’interno di un quadro gia poco idilliaco, “spicca”, purtroppo, la Sicilia. Dal 2010 al 31 ottobre 2022, infatti sull’isola sono registrati 175 eventi estremi. A seguire Lombardia (166), Lazio (136), Puglia (112), Emilia-Romagna (111), Toscana (107) e Veneto (101). Cifre emblematiche, anche in considerazione del dato nazionale aggregato: nel medesimo periodo, in Italia, gli eventi estremi sono stati 1503. I Comuni colpiti 780 e le vittime 279. Il trend è preouccupante anche in relazione all’anno in corso.
Nei primi dieci mesi del 2022, in tutta la penisola, si sono verificati 254 fenomeni metereologici estremi, con un aumento del 27% rispetto all’intero 2021. Questi gli aspetti più rilevanti che emergono nuovo report “Il clima è già cambiato” dell’Osservatorio CittàClima 2022 realizzato da Legambiente, con il contributo del Gruppo Unipol. Entrando nello specifico, su 1.503 fenomeni estremi ben 529 sono stati casi di allagamenti da piogge intense come evento principale, e che diventano 768 se si considerano gli effetti collaterali di altri eventi estremi, quali grandinate ed esondazioni; 531 i casi di stop alle infrastrutture con 89 giorni di blocco di metropolitane e treni urbani, 387 eventi con danni causati da trombe d’aria.
Ad andare in sofferenza sono soprattutto le grandi città con diverse conferme tra quelle che sono le aree urbane del Paese più colpite in questi 13 anni: da Roma – dove si sono verificati 66 eventi, 6 solo nell’ultimo anno, di cui ben oltre la metà, 39, hanno riguardato allagamenti a seguito di piogge intense; passando per Bari con 42 eventi, principalmente allagamenti da piogge intense (20) e danni da trombe d’aria (17). Agrigento, con 32 casi di cui 15 allagamenti e poi Milano, con 30 eventi totali, dove sono state almeno 20 le esondazioni dei fiumi Seveso e Lambro in questi anni.
Una fotografia preoccupante, quella fornita dal report di Legambiente, presentanto proprio nella fase conclusiva della Cop27, anche allo scopo di lanciare un doppio appello. Anzitutto ribandendo la necessità di mantenere vivo l’obiettivo di 1.5°C e di aiutare i aesi più poveri e vulnerabili a fronteggiare l’emergenza climatica, ma anche chiedendo che l’Italia faccia la sua parte. L’associazione, a tal proposito, chiede al premier Meloni e al ministro al ramo Pichetto Fratin, l’aggiornamento e l’approvazione, entro fine anno, de Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), rimasto in bozza dal 2018, quando era presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e ministro Gian Luca Galletti. Ad oggi sono saliti a 24 i Paesi europei che hanno adottato un piano nazionale o settoriale di adattamento al clima. Grande assente l’Italia che per altro in questi ultimi 9 anni – stando ai dati disponibili da maggio 2013 a maggio 2022 e rielaborati da Legambiente – ha speso 13,3 miliardi di euro in fondi assegnati per le emergenze meteoclimatiche (tra gli importi segnalati dalle regioni per lo stato di emergenza e la ricognizione dei fabbisogni determinata dal commissario delegato).
Si tratta di una media – sottolinea l’associazione – di 1,48 miliardi l’anno per la gestione delle emergenze, in un rapporto di quasi 1 a 4 tra spese per la prevenzione e quelle per riparare i danni. “Nella lotta alla crisi climatica – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – da troppi anni l’Italia sta dimostrando di essere in ritardo. Continua a rincorrere le emergenze senza una strategia chiara di prevenzione, che permetterebbe di risparmiare il 75% delle risorse economiche spese per i danni provocati da eventi estremi, alluvioni, piogge e frane, e non approva il Piano nazionale di adattamento al clima, dal 2018 fermo in un cassetto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. È fondamentale approvare entro fine anno il Piano, ma anche definire un programma strutturale di finanziamento per le aree urbane più a rischio, rafforzare il ruolo delle autorità di distretto e dei comuni contro il rischio idrogeologico e la siccità, approvare la legge sul consumo di suolo, e cambiare le regole edilizie per salvare le persone dagli impatti climatici e promuovere campagne di informazione di convivenza con il rischio per evitare comportamenti che mettono a repentaglio la vita delle persone”.
Il report di Legambiente, inoltre, analizza anche altri due aspetti fondamentali, ovvero gli interventi per la prevenzione e i fondi per le emergenze. Guardando alla spesa realizzata in questi anni per gli interventi programmati di messa in sicurezza e prevenzione, emerge come dal 1999 al 2022 sono stati 9.961 gli interventi avviati per mitigare il rischio idrogeologico in Italia per un totale di 9,5 miliardi di euro (elaborazione Legambiente su fonte Ispra, piattaforma Rendis), con una media di 400 milioni di euro l’anno. In parallelo, i dati della Protezione Civile sugli stati di emergenza da eventi meteo-idro dal maggio 2013 a maggio 2022, parlano di 123 casi, segnando un lieve incremento rispetto al 2021 (quando però i dati includevano il periodo fino a ottobre), ma comunque in aumento deciso rispetto ai 103 nel 2020. E poi ci sono i fondi assegnati per le emergenze che, sempre in questo arco di anni, arrivano a poco meno di 13,3 miliardi di euro.
“Anche quest’anno il Rapporto CittàClima – spiega Marisa Parmigiani, head of Sustainability del Gruppo Unipol – ci evidenzia un peggioramento nell’esposizione ai rischi climatici. Come denunciamo da tempo il nostro paese è fortemente esposto in primis al rischio idrogeologico, ma ultimamente vediamo crescere, anche nei nostri sinistri, i fenomeni della grandine e delle trombe d’aria. Dobbiamo operare congiuntamente, secondo un approccio di partnership pubblico/privato, per adottare e sviluppare un adeguato Piano di Adattamento, perché non è più sufficiente intervenire sulla mitigazione in un contesto in cui il clima è già cambiato”.