L'angolo della Corte

Il carcere e il diritto alla sessualità


Al detenuto non debbono essere imposte restrizioni eccedenti quelle funzionali all’espiazione della pena che deve scontare. Questo è l’insegnamento che può trarsi dalla sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale.

Un Magistrato di sorveglianza aveva rinviato alla Corte una norma della L. n. 354 del 1975 (Legge sull’Ordinamento Penitenziario) che, imponendo in modo generalizzato e assoluto il controllo visivo sui colloqui dei detenuti, rendeva impossibili incontri, pudicamente definiti, di “intimità affettiva” che il giudice riteneva invece non potessero essere negati, pena la violazione di quel “bagaglio di diritti” che permane anche in capo alle persone recluse. Tra le norme costituzionali invocate a sostegno della fondatezza della questione e che sosterranno poi la decisione di accoglimento vi è l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza della norma che, con l’imporre sempre il controllo visivo durante gli incontri impedisce alla persona ristretta in carcere di intrattenere rapporti (sì, anche intimi) con persone cui lo legano significativi e non estemporanei legami affettivi, in assenza di quei motivi di sicurezza o disciplinari che soli avrebbero potuto, legittimamente, vietarli. Richiamato anche l’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto la mortificazione della sessualità, modo essenziale di espressione della persona umana, inducendo una sorta di “desertificazione affettiva” nel detenuto stride con la funzione rieducativa propria della pena. Infine, la norma sarebbe lesiva degli artt. 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) e, di riflesso, dell’art. 117, primo comma, Cost., poiché l’astinenza forzata integrerebbe un “trattamento inumano e degradante” e pregiudicherebbe il rispetto alla vita privata e familiare del detenuto. Né i “permessi premio” con i rigidi requisiti soggettivi e i presupposti oggettivi per la loro concessione possono garantire ai detenuti che ne avrebbero titolo di coltivare quei “momenti di affettività” che la Costituzione non può loro negare in via di principio.

L’ordinamento giuridico, precisa la Corte, tutela le relazioni affettive della persona all’interno delle formazioni sociali (famiglia, convivenze di fatto, unioni civili) e riconosce la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che le contraddistingue. Le condizioni di sicurezza richieste dallo stato di detenzione incidono senz’altro sulle modalità di esercizio dell’affettività, tuttavia essa non può essere del tutto cancellata ma, a seconda delle situazioni, va individuato il limite oltre il quale la compressione della libertà affettiva non è più costituzionalmente giustificabile e sconfina nella lesione della dignità della persona. Tale è il caso di un controllo visivo costante preclusivo di qualsiasi contatto intimo.

Anche in questa occasione soccorre l’argomento “europeo”. Premesso che altri Paesi che si richiamano ai nostri stessi valori (Francia, Spagna, Germania) consentono l’espressione di affettività intramuraria la Corte Edu, pur riconoscendo l’ampia discrezionalità degli Stati Membri in materia, ha ritenuto che solo in casi eccezionali e per comprovate ragioni di sicurezza potevano essere vietate le visite coniugali ai detenuti e sempre nel rispetto del criterio di proporzionalità.

Pertanto l’impossibilità di intrattenere colloqui intimi derivante dall’obbligo generalizzato di controllo visivo contravviene all’art. 8 Cedu. In attesa di un auspicabile intervento del legislatore la Corte invita tutti gli attori del sistema carcerario a garantire sin d’ora quel diritto all’affettività che spetta anche alle persone recluse, da esercitare all’interno di legami stabili e nel rispetto delle condizioni di sicurezza.

Giovanni Cattarino
già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ucio Stampa