In un’intervista pubblicata sul quotidiano Avvenire nel 2003 Massimiliano Cencelli, un funzionario della Democrazia Cristiana, raccontò che al Congresso di Milano del 1967 Sarti, Cossiga e Taviani, fondarono la corrente dei “pontieri” che doveva fare da ponte fra maggioranza e sinistra, ottenendo il 12% dei voti. Dovendo decidere come dividere gli incarichi in direzione Cencelli propose, mutuando il meccanismo delle assemblee delle società, di assegnare la stessa percentuale agli incarichi di partito e di governo. Cencelli codificò il peso degli incarichi in un documento di otto pagine passato alla storia come “Manuale Cencelli”.
A ogni posizione veniva assegnato un peso e un punteggio per cui con una formula matematica si poteva calcolare quanti e quali posti spettassero ad ogni corrente nel partito e ministri, viceministri e sottosegretari nel governo. Il Manuale è stato poi utilizzato in ogni occasione in cui, a qualsiasi livello, è stato necessario ripartire incarichi assumendo la connotazione negativa di spartizione partitica. Non fa eccezione il governo appena nato guidato da Giorgia Meloni, in cui per settimane abbiamo sentito i partiti della maggioranza rivendicare dicasteri in base al loro peso politico e visto candidati sballottati da un posto all’altro.
Se da un lato questo modo di procedere è l’esatto contrario di quanto prevede l’art.92 della Costituzione che recita “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”, è chiaro che per avere la fiducia il Presidente del Consiglio deve fare i conti con i partiti che gliela devono accordare in Parlamento. Nonostante la sbandierata corsa alla competenza (finalmente!), alla fine ha vinto Cencelli. Nove ministri sono andati a Fratelli d’Italia, cinque alla Lega. cinque a Forza Italia, cinque ai tecnici e ai partiti minori che sosterranno il governo. Un esercizio da esperto farmacista con il suo bilancino, più che da Presidente del Consiglio.