Teologo, psicologo e professore presso la Pontificia università Gregoriana, padre Hans Zollner è considerato uno dei maggiori esperti a livello mondiale nel campo della salvaguardia e della prevenzione degli abusi sessuali. Lo abbiamo sentito per parlare della pedofilia all’interno della Chiesa e del report che a breve sarà pubblicato dalla Cei.
Padre Zollner, il report in fase di redazione della Cei porta con sé alcune ombre. La prima è che si tratta di un’indagine interna e non indipendente. La seconda è che farà riferimento agli abusi avvenuti solamente negli ultimi 20 anni basandosi sui dati dei centri fragilità delle diocesi entrati in funzione appena due anni fa. Lei cosa ne pensa?
“Dobbiamo agire con onestà, anche quando si tratta di ammettere non solo errori ma anche abusi commessi da parte del clero. Io sono da sempre un avvocato per l’onestà e per la verità. Anche se ci costa ammettere che ci sono persone che hanno ferito la vita di coloro che gli sono stati affidati, soprattutto se si tratta di persone vulnerabili come i minori. Non aiuta rifugiarsi nel silenzio o nella negazione perché prima o poi verranno a galla la verità, i dati, i fatti. A quel punto seguirà una pesante perdita di credibilità della Chiesa, che è costruita sulla testimonianza di coerenza, misericordia e amore per l’altro. Questo fatto lo vediamo in tante parti del mondo, dove si discute molto di più degli abusi della Chiesa. Io mi aspetto che se ne cominci a parlare anche in Italia. Non vedo possibilità e opportunità di negare ciò che è successo in passato. Soprattutto perché dobbiamo fare di tutto perché i minori e i vulnerabili siano difesi. Oggi la prevenzione dipende anche dall’ammettere la realtà del passato”.
In Sicilia sono 28 i preti pedofili che sono stati condannati, che hanno patteggiato o che sono indagati. Un dato che rappresenta oltre l’8% dei preti condannati a livello nazionale. Tutti numeri che dovrebbero essere rivisti al rialzo, date le peculiarità del trauma. Secondo lei questa indagine interna porterà alla luce un dato reale o uno molto a ribasso?
“Io non conosco né la metodologia né lo scopo preciso di questa indagine. In ricerca, su questi campi, e in particolare nella ricerca sul fenomeno di abuso in alcuni Paesi, si distinguono due concetti: il campo chiaro e il campo oscuro. Io suppongo che, come in molti altri studi condotti in Usa o in Germania, si parlerà del campo chiaro, ovvero di quei casi che possono essere verificati, calcolati e contati attraverso quello che si trova nei documenti, negli archivi, nella corrispondenza tra uffici. Queste cose si trovano nelle denunce presso la magistratura, in quelle nell’ambito della Chiesa stessa o testimonianze dirette da parte delle vittime o da parte di un reo. L’unica ricerca fatta sul campo oscuro, cioè sulla stima secondo un metodo utilizzato in medicina per l’epidemiologia, è quella francese. Loro hanno chiesto a sociologi di fare una tale stima seguendo un metodo riconosciuto e utilizzato dall’Oms. Ovviamente non è la stessa cosa avere da un lato numeri precisi, verificati e comprovati dalla documentazione in essere e dall’altro una stima che anche se scientificamente valida sempre una stima rimane. Si deve stare attenti a non aspettarsi che questo metodo produca numeri esatti sulle vittime di abuso in Sicilia o altrove. Da quello che capisco io, in Italia si concentreranno sui dati verificabili in un senso forense. Non è che è un’eccezione l’Italia, l’eccezione era la Francia”.
Ci sono diversi studi che confermano che il periodo di accettazione di questo tipo di traumi supera i 20-25 anni. Come mai in Italia, secondo lei, si è individuato proprio l’intervallo di tempo di venti anni?
“Generalmente i tempi, in tutti i rapporti che abbiamo visto ultimamente, andavano dalla fine della Seconda guerra mondiale ai nostri giorni. Quando parliamo del consumarsi dei casi di abuso non ha senso andare più in là. In Spagna, per esempio, i gesuiti hanno cominciato a parlare di vittime degli anni 1920. Ma anche questa era una eccezione. Normalmente negli ultimi anni si prendevano i decenni dopo la guerra. Io non so perché la Cei ha deciso di guardare solo agli ultimi 20 anni, non conosco le spiegazioni. In quasi tutti i rapporti che ho visto però si prendevano fino a 70 anni indietro”.
Questa differenza dell’intervallo di tempo pensa che possa avere una conseguenza negativa sull’esito del rapporto?
“Io credo che se faranno bene il lavoro per gli ultimi vent’anni produrranno i numeri reali degli ultimi vent’anni. Ma sarà solo una parte della realtà perché prima degli ultimi 20 anni ci sono state altre vittime e quindi si dovrà andare indietro prima o poi. Non è che non siano giusti questi impegni ma saranno sempre parziali. Se si concentrano negli ultimi vent’anni con la cresciuta attenzione verso il tema tipica di questi anni, le vittime possono essere aiutate a denunciare con più libertà. Sappiamo che tantissimi hanno tardato molto a parlare di queste ferite. Ma non vale per tutti. Sembra che dove c’è più attenzione, sensibilità e possibilità mediatica di far conoscere i fatti le persone si sentono più invitate a parlarne pubblicamente. Comunque
quello che è successo negli ultimi venti anni è una cosa, ciò che è statodenunciato negli ultimi 20 anni è un’altra cosa e sappiamo che non sononumeri indifferenti, anche in Italia”.
Una tendenza che è stata rilevata in alcuni dei casi di abuso è quella dei vescovi di “insabbiare” i reati dei loro preti. Questa tendenza a cosa è dovuta e come può essere superata dalla Chiesa?
“Come il Papa ha detto alcuni giorni fa alla Cnn in Portogallo per un sacerdote abusatore non ci dovrebbe essere spazio nel ministero sacerdotale e quindi dovrebbe essere dimesso. Purtroppo per tanto tempo nella Chiesa universale il primo impulso era sempre la difesa delle istituzioni e dei sacerdoti ad oltranza anche se i superiori erano consapevoli dei crimini commessi. Volevano salvare il sacerdote anziché ascoltare la vittima. Volevano credere nelle confessioni dei rei che promettevano di migliorare e di non commettere di nuovo abuso e così sono caduti spesso nella trappola della falsa benevolenza. In molte parti del mondo la situazione è sempre a stessa: i sacerdoti vengono spostati da una diocesi all’altra, da un continente all’altro. Così alcuni vescovi hanno collaborato con il male dando la possibilità ad un abusatore di continuare ad abusare. Il Papa ha detto mille volte che non dovrebbe accadere”.
Una condanna che spesso, quando c’è, viene scontata dai carnefici nelle cosiddette case di recupero. Cosa accade dentro queste strutture?
“Da secoli ci sono case di recupero per sacerdoti con malattie psichiche o alcolismo o altre cose simili. Io non ho mai visitato una di queste strutture in Italia ma penso che abbiano livelli molto diversi in termini di professionalità. Probabilmente alcune esistono solo per contenere le persone, sia nello spazio sia nelle loro attività. Altre sono molto più attrezzate in termini di terapia e di supervisione. In ogni caso queste strutture esistono perché anche nel clero cattolico ci sono persone con grosse difficoltà sia a livello fisiologico che psicologico, inclusa una patologia come la pedofilia. C’è una cosa che voglio sottolineare: non tutti i sacerdoti che abusano minori sono pedofili secondo la definizione psichiatrica che dice che i pedofili sono le persone che sono attratte dai minori prima dell’inizio della pubertà. La maggior parte degli abusatori del clero cattolico, da quello che possiamo sapere, abusano non bambini ma adolescenti”.
Quindi non sono pedofili ma pederasti? In ogni caso il risultato della loro devianza non è lo stesso?
“Beh, no. Anche di fronte alla legge italiana l’abuso di un minore prima che compia 14 anni viene trattato diversamente. C’è un riconoscimento sia della medicina che dal punto di vista legale di una differenza. Che per la persona questo abuso possa avere lo stesso effetto è un altro discorso, ma oggettivamente ci sono considerazioni diverse. Inoltre, le chiederei di evitare la parola pederastia perché viene male intesa e non corrisponde al concetto scientificamente valido. A mio parere l’utilizzo di questa parola non aiuta neanche sulla discussione seria di queste materie. Sia davanti alla legge che davanti al medico ci sono criteri per valutare questi casi uno per uno”.
La pedofilia è una malattia per cui è possibile una guarigione? E nelle case di recupero è questo l’obiettivo?
“Se uno è pedofilo sessualmente attratto da bambini prima dell’adolescenza, nella psichiatria di oggi questa attrazione non può essere cambiata. Il che non vuol dire che non ci sia la possibilità di lavorare con queste persone affinché non agiscano secondo le loro attrazioni. Ma questi casi coincidono con una percentuale piccola di tutti gli abusatori di minori perché la stragrande maggioranza degli abusatori non sono pedofili né nella Chiesa né nella società”.