Leadership

La cittadinanza non è solo appartenenza fisica

“La cittadinanza non può essere solo “appartenenza fisica”, né solo “ius soli” o “ius sanguinis” ma partecipazione attiva alle sorti della comunità a cui si appartiene”.
La frase non è del tutto mia, ad ispirarmela è stato un caro amico di sempre: Santo Fabiano, conosciutissimo esperto di problemi della Pubblica Amministrazione, ed è stata formulata a commento di un mio post pubblicato alcuni mesi addietro, ma sempre molto attuale.

Ho condiviso e condivido in pieno il suo pensiero, ma anche la sua preoccupazione, legata allo scarso senso civico che notiamo guardandoci intorno e del quale siamo in parte responsabili, anche per semplice incuria o per disinteresse.
Per questo motivo aggiungo un altro pensiero che si collega perfettamente al precedente, o almeno lo spero.

La società nella quale esercitiamo la nostra cittadinanza è quella che costruiamo con le nostre azioni, con il nostro lavoro, partecipando ai suoi processi decisionali, non un’altra.
La società alla quale faccio riferimento è quella alla cui vita interveniamo con le nostre opere e con le nostre idee, avendo assoluto rispetto delle sue regole, alla cui formazione abbiamo contribuito, o avremmo dovuto, contribuire.

La cittadinanza è come se fosse la somma algebrica dei comportamenti di ciascuna persona che fa parte di un determinato nucleo di uomini e donne, che vivono nel medesimo contesto.
Ecco perché, se qualcosa non funziona come dovrebbe, siamo tutti colpevoli, ovvero tutti responsabili del suo andamento, dei suoi successi e delle sue sconfitte, che non sono soltanto di alcuni o di chi ha il compito di amministrare la comunità nella quale agiamo, su nostra delega, ma è di tutti, nessuno escluso e tutti vi devono contribuire.
Sentirci assolti non ci assolve affatto. Anzi, come avrebbe detto il grande Fabrizio De André: “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti.”
Siamo coinvolti perché o abbiamo fatto male o non abbiamo fatto nulla per evitarlo, magati per paura, o per viltà, o semplicemente per ignavia.
Siamo coinvolti anche se ci siamo soltanto girati dall’altra parte, quando invece avremmo dovuto intervenire e scegliere.

Credo che noi siciliani, noi che siamo stati spesso trattati da miserabili accattoni, dovremmo batterci per non vivere di elemosine, ma di dignitoso lavoro e sentirci coinvolti nella sorte di ciascuno, anche se fisicamente non lo conosciamo.
La partecipazione è dovuta, non è opzionale, a prescindere dall’interesse personale poiché, in seno ad un contesto sociale, anche l’interesse personale, se è lecito, è parte integrante del più ampio interesse collettivo, dunque deve essere affrontato con equilibrio e buonsenso.
Per questa ragione dovremmo chiedere, con tutte le nostre forze, non improduttivi “redditi di cittadinanza”, ma semmai produttivi “lavori di cittadinanza”, che ci permetterebbero di migliorare la qualità della vita delle nostre città, partecipando al suo percorso di crescita.

È il lavoro che ci restituirà la dignità che ci è stata sottratta in anni di furti compiuti da partiti e governi centrali, i quali hanno portato al Nord le ricchezze del Sud e persino le risorse che ci erano state assegnate dalla legge.
C’è tanto da fare, non accontentiamoci del pesce che qualcuno ci viene a portare per renderci schiavi, non accontentiamoci di un bicchiere d’acqua che ci lascia la sete, perché abbiamo il sacrosanto diritto di pretendere la rete e la barca, ma anche la possibilità di poterci scavare un pozzo capace di dissetarci.

Tuttavia non basta ottenere questi strumenti, perché dobbiamo imparare ad usarli al meglio, per guadagnarci la libertà e non essere costretti a vivere di elemosine, come qualcuno vorrebbe che continuassimo a fare.
Le misure legate al superamento delle condizioni di disagio vanno contestualizzate, vanno inserite in un quadro di welfare più complesso e moderno, ma soprattutto vanno collegate con un più funzionale ed efficace quadro di miglioramento della qualità della vita, che sia in sintonia con le condizioni generali del quadro economico in cui è collocato il Paese.