Temperature in aumento, ondate di calore, siccità, desertificazione ed eventi estremi sono solo alcuni degli effetti devastanti del cambiamento climatico che sta coinvolgendo l’Italia e ancora di più la Sicilia, di fronte ai quali comunità, imprese e istituzioni sono chiamati a trovare soluzioni “immediate, rapide e su larga scala”, parafrasando quanto affermato da Mario Draghi in occasione del “Climate moment” di New York. “Se non agiamo per ridurre le emissioni di gas serra – spiega il premier italiano -, non saremo in grado di contenere il cambiamento climatico al di sotto di 1,5 gradi”.
Proprio oggi a Milano prende il via la Pre-Cop 26, un evento preparatorio al successivo summit mondiale che si terrà a Glasgow dall’1 al 12 novembre. I ministri del clima e dell’energia di un gruppo selezionato di Paesi saranno chiamati a discutere dei negoziati in tema di ecosostenibilità. All’appello per la lotta contro il cambiamento climatico hanno risposto anche i giovani di tutto il mondo: oltre 400 under 30 stanno infatti prendendo parte in questi giorni a “Youth for climate”, un vero e proprio “testa a testa” tra rappresentanti politici e nuove generazioni, le quali presenteranno un’agenda di proposte concrete per trovare soluzioni alle problematiche più urgenti.
Sarà presente anche “Fridays for future”, il movimento capeggiato da Greta Thunberg, arrivata nel capoluogo lombardo per denunciare pubblicamente i leader mondiali, additandoli come “blabatori”, a causa della loro inerzia di fronte a una crisi galoppante che scuote territori e capitali. Nei prossimi decenni, infatti, assisteremo a uno scenario in cui i costi economico-finanziari connessi all’aumento delle temperature e dei disastri naturali saranno difficilmente “sostenibili” per il nostro paese e a risentirne non saranno solo le classi sociali più deboli e svantaggiate ma tutti i settori, dalle infrastrutture all’agricoltura, per non parlare del turismo.
Uno scacco matto all’economia che, stando alle previsioni della fondazione Cmcc (Centro Euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici), porterebbe a una riduzione del Pil pro capite tra lo 0,5% e lo 0,8% entro fine secolo. “In uno scenario di aumento di temperatura pari a 3°C al 2070 – si legge nel rapporto – i costi diretti in termini di perdita attesa di capitale infrastrutturale si aggirerebbero tra gli 1 e i 2,3 miliardi di euro annui nel periodo 2021-2050, e tra gli 1,5 e i 15,2 miliardi di euro annui nel periodo 2071-2100”.
Rischia insomma di avere effetti devastanti l’immobilismo da parte delle nazioni, che finora si sono dimostrate troppo lente ad agire rispetto alla rapidità dei cambiamenti in atto, ma anche quello di Amministrazioni regionali e comunali, chiamate a recitare un ruolo fondamentale in settori chiave come mobilità, pianificazione urbanistica e ambientale, forestazione urbana ed efficientamento energetico.
Non serve proiettarci nel 2050 per aspettare la catastrofe, i segnali in Italia e in Sicilia ci sono già tutti. Basti pensare che, nonostante la regione si sia impegnata già dal 2015 per ridurre le emissioni climalteranti del 40% entro il 2030, solo 25 Comuni su 391 hanno adottato il Piano d’azione per l’energia sostenibile e il clima (Paesc) così come previsto dall’Unione europea.
Chissà fino a dove si spingerà, di questo passo, il termometro in Sicilia. Ogni estate fa segnare un nuovo record di temperature: una crescita in atto da trent’anni ma che ora sembra aver accelerato il passo. Ciò che dobbiamo aspettarci, secondo le analisi del Cmcc, è una progressivo aumento di +2 gradi a partire dal 2021 se agiamo immediatamente, di addirittura +5 gradi nell’ipotesi peggiore. L’obiettivo di contenere questo trend entro 1,5 gradi, come auspicato anche da Draghi, è già roba vecchia.
Venendo ai numeri dell’Isola, le temperature medie in mezzo secolo sono cresciute di circa 1,89 gradi secondo le analisi di Copernicus. Come già evidenziato dal QdS in una precedente inchiesta, l’aumento più grave è stato registrato a Enna, Messina e Palermo, con picchi fino a +2,5 gradi. I centri urbani sono, infatti, dei veri e propri “hot spot” in cui i cambiamenti climatici sembrano “trovare casa”. Si tratta, infatti, di aree geografiche caratterizzate da elevata vulnerabilità, soprattutto a causa della inarrestabile impermeabilizzazione del territorio: più suolo si consuma, più alberi e vegetazione si sradicano e maggiore è la perdita dei servizi ecosistemici (dalla mancata cattura di CO2 ai rischi di gravi conseguenze in caso di alluvioni). E così l’afa ha raggiunto livelli insostenibili persino nelle ore notturne, rendendo le città sempre più invivibili.
La Sicilia-deserto non è un rischio: senza interventi urgenti e immediati, è una certezza. Le previsioni al 2050 parlano di una progressiva diminuzione delle precipitazioni nelle regioni del centro e del Sud, ma già oggi la situazione appare allarmante: solo nell’Isola l’Ispra ha contato lo scorso anno ben 90 giorni senza piogge, un record condiviso con la Sardegna. In generale vi è stato un calo pari a circa l’80% e le precipitazioni medie nella nostra regione sono state di 16 millimetri tra gennaio e febbraio: per trovare numeri simili bisogna tornare indietro di un secolo, al 1921.
Si diceva, appunto, che di questo passo la desertificazione più che una probabilità è una certezza e, stando ai calcoli di Arpa Sicilia, vi è coinvolto il 70% del territorio siciliano, il quale rischia di risvegliarsi in un futuro tutt’altro che remoto con sempre meno aree coltivalibili e sempre più zone a rischio idrogelogico.
Ma a far tremare le ginocchia è anche il costante incremento di eventi estremi. Secondo le previsioni del Cmcc, la probabilità di rischio nel Paese è aumentata del 9% negli ultimi vent’anni. Anche in questo caso l’Isola è nell’occhio del ciclone: tra il 2010 e il 2020 (rapportao Città Clima di Legambiente) tre città siciliane sono rientrate tra quelle più colpite. A guidare la lista con 31 eventi vi è Agrigento, terza in Italia dopo Roma e Bari, seguita dai 13 di Palermo e dagli 8 di Catania.
“Nessuna regione italiana è in linea con gli obiettivi intermedi fissati per la neutralità climatica al 2030”: a far suonare il campanello d’allarme è il rapporto “La corsa delle regioni” di Italy 4 Climate. Bisogna dunque accelerare il passo, sebbene nel generale scostamento dagli obiettivi previsti Campania, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria e Marche riescono a far meglio.
Il rapporto, realizzato in collaborazione con Ispra su dati 2019, individua tre parametri di riferimento in base a quali classificare i territori italiani: emissioni di gas serra, consumi di energia e fonti rinnovabili. Per ognuno dei tre ambiti è stata valutata la performance di stato, ovvero la fotografia del 2019 e la performance di miglioramento annuo rispetto al triennio 2017-2019. Si tratta dunque di una classifica stilata sulla base del risultato medio raggiunto dall’Italia, che però – va ribadito – è scarso.
Avanti a tutti c’è la Campania, che fa l’en plein con sei indicatori su sei sopra la media nazionale, a cui seguono le “cinque virtuose” già citate con quattro indicatori su sei migliori del dato medio. La Sicilia va “bene ma non benissimo” con tre indicatori, posizionandosi al fianco di Basilicata, Calabria, Molise, Sardegna, Trentino e Valle d’Aosta. Malissimo gli altri, tra cui sorprendentemente anche la Lombardia.
Tra gli indicatori, uno dei più “scottanti” è quello relativo alle emissioni di gas serra. In media nel nostro Paese, ogni abitante produce circa 7 tonnellate di CO2 (il dato si riferisce all’anno 2019). La Sicilia in questo caso è “promossa” per un pelo, in quanto le emissioni pro capite nell’Isola si attestano su 6,5 tonnellate di CO2 equivalente per abitante. Si tratta di un risultato molto modesto se paragonato a quello della Campania, che è riuscita ad attestarsi su un valore di 3,3 tCo2 eq/ab.
Nel lungo periodo, il trend non è per nulla incoraggiante. Infatti, rispetto al 2017, se è vero che la nostra regione è riuscita a ridurre le esalazioni inquinati dello 0,6%, si tratta di una variazione positiva ben al di sotto della media nazionale, che è pari al -1,7%. Addirittura lontanissime alcune regioni come Lazio e Liguria in cui la riduzione dei veleni dell’aria si attesta rispettivamente a -11,4% e a -7%.
In generale, comunque, c’è molta strada da fare e un passo decisivo sarà la chiusura delle centrali termoelettriche alimentate a carbone (la fonte fossile con maggiori emissioni di gas serra) entro il prossimo 2025. Ad oggi hanno raggiunto questo risultato solo sette regioni, ribattezzate “coal free”, ovvero Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Marche, Molise, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.
Non c’è la Sicilia che, però, è promossa per quanto riguarda i consumi, addirittura la seconda regione per minore spreco di energia in Italia (1,23 tonnellate equivalenti di petrolio per abitante residente, fa meglio solo la Campania), pressoché la metà della media italiana (2,02). La Lombardia, per esempio, registra un valore doppio (2,46), ma va detto che lì si concentrano molte più imprese energivore. Male, invece, la performance dell’Isola nel triennio, poiché si registra una crescita di 1,3 tep/ab, ovvero +0,6 in rapporto alla costante nazionale.
Dal rapporto emerge anche un altro interessante dato, ovvero che l’Italia è uno dei paesi con il più alto tasso di motorizzazione in Europa e nel mondo, con 633 vetture ogni mille abitanti, un elemento che da solo è responsabile del 30% dei consumi finali di energia nel Paese. Nella classifica regionale la Sicilia si posiziona settultima, con 688 automobili.
In termini di rinnovabili l’Isola, purtroppo, è decisamente bocciata: quartultimo posto in quanto copre soltanto il 12,8% dei consumi con fonti pulite, ovvero il 4,3% in meno rispetto alla tendenza nazionale. Negli ultimi tre anni c’è stato un miglioramento, con un trend di crescita pari in media al +1,2%.
In ogni caso, paradossalmente, quello che potrebbe essere il punto di forza della Sicilia (tra le regioni europee con le migliori performance di irraggiamento solare), è ancora un grande potenziale inespresso. Al di qua dello Stretto, infatti, si registrano soltanto 294 Watt per abitante, meno della metà di quanto fanno Marche, Puglia e Basilicata, e un quarto rispetto all’obiettivo di 1.200 Watt pro capite che, secondo Italy for Climate, sarebbero necessari per rispettare gli impegni climatici al 2030.
Parla Michela Spina, portavoce del movimento e componente del gruppo di Napoli: “Le amministrazioni regionali e comunali hanno un compito fondamentale. Si deve pensare globale, ma agire localmente”
I giovani sono in prima linea per chiedere alle istituzioni mondiali di trasformare il “bla bla bla” in un piano organizzato e da realizzare nell’immediato. Prima fra tutte l’organizzazione Fridays for future, che da anni scende in piazza per denunciare le problematiche connesse al cambiamento climatico. Ne abbiamo parlato con Michela Spina, portavoce del movimento e membro del gruppo di Napoli.
Lo scorso 24 settembre avete organizzato un Global climate strike, invitando tutte le categorie sociali a scendere in piazza, anche in vista della Cop26 a Glasgow. Che riscontro avete avuto da cittadini e istituzioni?
“Già dal lockdown le forze, in generale, sono certamente diminuite sia in termini di presenza studentesca che per tutti i partecipanti delle nostre assemblee. Eppure per fortuna, forse in virtù di un’accresciuta consapevolezza correlata ai recenti eventi climatici disastrosi verificatisi in Sardegna e in Germania, la partecipazione è stata di gran lunga superiori alle aspettative. Erano presenti tantissimi studenti ma anche genitori, nonni e soprattutto insegnanti che hanno addirittura preso un giorno libero a proprie spese. Le istituzioni, invece, si sono mostrate un po’ assenti, sebbene in alcune piazze vi siano state delle interlocuzioni con alcuni rappresentanti locali. Ai discorsi, però, non segue mai l’azione”.
Quanto ritenete sia importante il coinvolgimento e la partecipazione proattiva di Regioni e Comuni nell’espletamento di azioni concrete per arrestare il cambiamento climatico?
“Si tratta di un aspetto fondamentale in quanto, come ribadiamo da sempre, si deve pensare globale ma agire localmente e, dunque, a catena Stato, Regioni e Comuni devono ragionare in quest’ottica. Le amminstrazioni, in particolare, sono una parte importantissima per quanto concerne il piano statale Next Generation e, di conseguenza del Pnrr. Ogni realtà, ovviamente, conosce le proprie criticità in termini di ecosostenibilità e, dunque, sa benissimo quali sono i fronti sui i quali è necessario agire”.
Quali potrebbero essere delle pratiche virtuose concrete per realizzare gli obiettivi previsti?
“Bisogna innanzitutto realizzare un’analisi delle macrocriticità a livello regionale e, successivamente, comunale. Penso, ad esempio, alla mia Campania, in cui esiste da decenni una crisi di notevole entità e ben nota, quale la Terra dei Fuochi. Si tratta di un ciclo di rifiuti illegali che viene perpetuato a danno della salute dei cittadini, che da anni denunciano il problema. Esso incide sul tasso di tumori nella regione e , dunque, si dovrebbe partire dalla messa in atto di un piano di riciclo dei rifiuti basato sull’economia circolare affiancato da dei concreti piani di gestione”.
Secondo i vostri monitoraggi quali sono le criticità a livello ambientale che caratterizzano il Sud e, nel dettaglio, la Sicilia?
“Noi a livello nazionale abbiamo creato una campagna ad hoc che si chiama Ritorno al futuro nella quale abbiamo evidenziato come, attraverso i fondi statali, siano necessarie specifiche misure soprattutto per il Sud. In particolare, nel Meridione vi sono problematicità evidentissime per quanto concerne il ciclo dei rifiuti ma anche per le infrastrutture, nella fattispecie per quanto concerne le scuole. Un altro grande problema è rappresentato dalla questione mobilità che, proprio nel Sud Italia, è ancora poco sostenibile”.
Quali sono le proposte alle istituzioni presenti che volete presentare alla Pre-Cop26 di Milano, che domani vedrà anche una vostra presenza in piazza?
“Oggi e domani saremo presenti per cercare di fare ascoltare dai ‘grandi’ che saranno presenti, prendendo spunto proprio dalla campagna Ritorno al futuro, che affronta tutte le misure che riteniamo indispensabili per la transizione energetica nel settore turistico, in agricoltura e in tantissimi altri campi. Le nostre richieste sono tante e perseguono tutte lo stesso scopo: dar vita ad una politica economica a misura di ambiente, clima e biodiversità per creare una vera e propria democrazia energetica”.