PALERMO – In Italia si parla ormai da molti anni di come i governi dovrebbero affrontare la grossa questione delle concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari: sono pubbliche, appunto, e come tali dovrebbero essere assegnate con gare aperte e sulla base di criteri trasparenti, dal momento che permettono lo sfruttamento economico di un bene che appartiene a tutti, come le spiagge. Da decenni invece le concessioni vengono prorogate periodicamente in modo quasi automatico agli stessi proprietari, peraltro con canoni d’affitto molto bassi, e la situazione è rimasta la stessa anche dopo che 16 anni fa la Commissione europea aveva chiesto formalmente all’Italia di liberalizzarle. Ogni volta che si è trovato davanti a una decisione da prendere, ogni governo italiano – di qualsiasi parte politica – ha scelto di prorogare la scadenza delle concessioni già esistenti, rinviando il problema ai governi successivi.
Il via alla rivoluzione balneare, con la riforma delle concessioni, era sembrato arrivare in Consiglio dei ministri martedì 15 febbraio 2022, con l’approvazione all’unanimità di quello che l’Europa chiedeva da tempo, con pene salate e sanzioni al nostro Paese per violazione della legge sulla concorrenza: la messa a libera gara dell’affidamento delle concessioni demaniali. L’emendamento al disegno di legge concorrenza relativo alle modalità di affidamento delle concessioni demaniali era stato approvato in modo unanime in Cdm e, come si leggeva dalla nota stampa di Palazzo Chigi: “La proposta di modifica mira a migliorare la qualità dei servizi con conseguente beneficio per i consumatori, a valorizzare i beni demaniali e, al contempo, a dare certezze al settore”. Il testo prevede che le concessioni in essere continuino ad avere efficacia fino al 31 dicembre 2023 dopodiché dovranno essere predisposti bandi di gara per far sì che, a partire dal 1° gennaio 2024, tutto rientri in quanto previsto dalle norme comunitarie.
Dopo la procedura d’infrazione dell’Europa emessa il 4 dicembre 2020 per non ottemperanza di quanto contenuto nella direttiva Bolkestein, l’obiettivo di Palazzo Chigi è stato quello di dimostrare che in Italia c’è un’abbondante quantità di litorali disponibili per permettere di avviare nuove imprese, in modo da garantire la concorrenza richiesta dall’Europa senza mettere a gara le concessioni esistenti, nel rispetto dell’articolo 12 della direttiva.
Per fare ciò, la presidente del consiglio Giorgia Meloni, lo scorso giugno, ha dato mandato a Elisa Grande, la sua capo dipartimento, di istituire un tavolo tecnico fra ministeri e associazioni di categoria per lavorare a una ricognizione ufficiale e completa delle concessioni demaniali sulle coste italiane, in modo da calcolare la percentuale di spiagge occupate e di quelle concedibili. Un lavoro di cui si è occupato il Ministero delle infrastrutture estrapolando i dati dal Sid (il Sistema informativo demanio, ndr), e arrivando nei primi giorni dello scorso mese di ottobre a dichiarare che solo il 33% delle coste marittime italiane è in concessione a stabilimenti balneari, un dato che, hanno precisato i funzionari del Mit, riguarda sia le spiagge già in concessione sia quelle oggetto di domande di concessione non ancora perfezionate. Il dato, per sottrazione, risultante è che il 67% delle coste marittime italiane non è oggetto di concessione.
Questo sarebbe sufficiente, per il Governo, per eludere la Bolkestein il cui comma 1 dell’art.15, recita “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento” dimostrando che non c’è scarsità di risorse naturali.
Un “cavillo” che però non convince, prima di tutto perché significherebbe privatizzare tutte le spiagge, anche quelle ad oggi “libere” che per molti cittadini rappresentano, ancora di più in tempi di inflazione, l’unica possibilità per godersi il mare (oltre a rappresentare un ulteriore aggressione al paesaggio italiano già provato da decenni di speculazione). Una soluzione che peraltro creerebbe contenziosi con Comuni e Regioni (la competenza in ordine alla gestione del demanio marittimo rientra nell’ambito della legislazione concorrente fra Stato e regioni) che hanno norme locali sulla quantità minima di spiagge da mantenere libere che non possono essere violate, soprattutto nelle zone dove la percentuale di concessioni è già molto alta.
Inoltre quel 67% di costa dove secondo il Governo sarebbe possibile “piazzare” lettini e ombrelloni non convince del tutto. Abbiamo scritto a Palazzo Chigi per avere informazioni dettagliate, ma ad oggi non abbiamo risposta. Sembrerebbe comunque che la ricognizione – seppure ha escluso tratti tecnicamente non concedibili (aviosuperfici, porti, aree industriali, aree naturali protette) – non faccia distinzione tra tratti sabbiosi e rocciosi, tra costa bassa e alta, né avrebbe escluso le aree di costa a minore accessibilità, ad esempio prive di strade di collegamento, ritenendo che potrebbero essere oggetto di successiva riqualificazione.
Inoltre non è dato sapere se il Governo abbia preso in considerazione altri dati specifici che restringono ulteriormente lo “spazio” balneare. Per esempio, in Sicilia, ogni anno circa il 20% dei tratti di costa viene inibito alla balneazione perché troppo inquinato, altri tratti invece risultano di difficile accesso a causa degli abusi edilizi, altri ancora presentano un tasso così elevato di erosione che impedirebbero qualsiasi struttura commerciale.
Diversi parlamentari stanno denunciando che i “conti” non tornano. Come Riccardo Magi, segretario di +Europa che parla di “truffa” dietro questa operazione. “Pur di non intaccare gli interessi della lobby dei balneari – scrive Magi su twitter – nella relazione da inviare all’Ue il governo Meloni ‘allunga’ l’Italia e si inventa 3000 kilometri di costa in più. Non i circa 8mila km calcolati dall’Ispra, ma ben oltre 11mila km”. “In questo modo – prosegue -, l’area occupata dagli stabilimenti risulta minore rispetto alla realtà: provano così a intortare l’Ue e mettere a gara gli ultimi pezzi di spiaggia libera rimasti in Italia”. Insomma, conclude Magi, “pur di evitare di mettere a gara le concessioni, i patrioti sono disposti persino a ingannare gli italiani, che avranno sempre meno libertà di scelta per andare al mare, e a barare con l’Europa truccando i dati. Il governo vuole regalare altri pezzi di spiaggia alla corporazione dei balneari, che continueranno a pagare canoni bassi allo Stato e ad alzare i costi di lettini e ombrelloni”.
A Magi replica Riccardo Zucconi, segretario di presidenza alla Camera e deputato di Fratelli d’Italia. “Non c’è nessuna truffa in atto da parte del Governo italiano ai danni dell’Ue o degli italiani – replica Zucconi – e dire il contrario è scorretto e fazioso, oltre che strumentale. Che Magi non percepisca la differenza che vi è tra metri quadrati e metri lineari è un problema suo, che invece offenda le strutture Ministeriali che hanno redatto la mappatura diventa un problema per gli italiani e per le aziende. I dati della mappatura che vedono circa un terzo delle superfici in concessione demaniali marittima attualmente occupati – conclude Zucconi -, piaccia o non piaccia a lor signori, sono quelli anche se per qualcuno sono dati scomodi, molto scomodi”.
Bruxelles comunque non ci sta. Lo scorso 15 novembre, infatti, è stato formalizzato il secondo step della procedura d’infrazione, ultimo passaggio prima del deferimento alla Corte di Giustizia Europea, ossia l’invio di una missiva intitolata “Concessioni balneari in Italia – Violazione della Direttiva e dei Trattati in funzione dell’Ue” che contesta le conclusioni del tavolo tecnico istituito nei mesi scorsi da Palazzo Chigi, secondo il quale i due terzi delle spiagge non sono in concessione e dunque non c’è una scarsità di litorale libero, perché – per le ragioni che anche noi abbiamo esposto prima – “non riflette una valutazione qualitativa delle aree in cui è effettivamente possibile fornire servizi di concessione balneare e non tiene conto delle situazioni specifiche a livello regionale e comunale”, sottolinea Bruxelles.
Ora l’esecutivo ha meno di due mesi di tempo per dimostrare il contrario, con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra il rispetto della direttiva Bolkestein e la volontà di salvaguardare gli operatori economici. “Abbiamo inviato un parere motivato sulle concessioni balneari italiane – si legge nella nota della Commissione Ue – e questo dà ora al Governo italiano due mesi per fornire risposte e allora decideremo sui prossimi passi. La nostra preferenza è sempre di trovare un accordo con gli Stati membri, piuttosto che andare in giudizio” e, proprio su questa preferenza, l’attuale Governo spera di trovare, con le sue scelte, l’accordo che gli permetterà di non essere oggetto né di sanzioni economiche tantomeno di essere deferita alla Corte di Giustizia Europea. I tempi tecnici, però, sono a favore della riconferma delle attuali concessioni almeno per il 2024, perché la scadenza prevista per fornire le risposte richieste della Commissione Ue avverrà il 15 gennaio, a esercizio già iniziato.
Interviene al QdS Alessandro Berton, presidente di Unionmare Veneto, la più importante associazione per la tutela e lo sviluppo del settore balenare aderente al Sib-Confcommercio.
Presidente, quando prende il via la lunga storia dei bandi per le concessioni balneari?
“Il problema delle concessioni demaniali inizia nel 2009, a seguito di un contenzioso nato in Veneto. Si trattava di una semplice concessione di un posto barca sul lago di Garda. Il ricorso effettuato da chi perse il contenzioso generò una sentenza destinata a fare scuola. Di fatto le concessioni decadono il 31/12/2009 e dal primo gennaio successivo iniziò il regime delle proroghe. Solo due comuni non la applicarono: Ostia, a seguito delle infiltrazioni mafiose, ed Eraclea, piccolo comune veneto. La Regione Veneto, nel 2009, mise mano alla modifica della legge 33, quella che norma tutta la materia turistico e la integrò con la possibilità di chiedere nuove concessioni demaniali, con l’obbligo di realizzare progetti che tengono conto della riqualificazione territoriale del comune, di difesa delle coste e delle relativi aree verdi. Questo approccio, unico in Italia, permette di creare una sinergia formale con il territorio e le amministrazioni comunali. Fu fatto un tentativo a livello nazionale durante il governo ‘Conte 1’ con la c.d. legge Centinaio che però, a seguito dei cambi delle compagini governative che si sono succeduti, non fu mai effettivamente applicata”.
Qual è la soluzione attuale?
“Ritengo che si sia in presenza di aspetti diversi. Da un lato gli interessi dei balneari quelli che, nella mia Regione il Governatore Zaia ha definito ‘bonificatori’, quelli che cinquanta, settant’anni fa, hanno avuto il coraggio di investire in aree del paese che non valevano nulla, le hanno bonificate anche costruendo alberghi, campeggi, stabilimenti balneari e creando ricchezza per sé e per gli altri e consentendo ad aree che avevano valore zero la spina dorsale su cui si poggia, ad esempio, il primato turistico della Regione Veneto, prima regione turistica italiana. Purtroppo i balneari sono anche quelli degli abusi edilizi, di alcuni territori costieri in cui non si pagano i canoni demaniali perché non c’è mai stata contezza degli asset demaniali. Sono anche, e lo dico con il massimo rispetto, quelli della Regione Sicilia, una regione insulare con una molteplicità di comuni sulla linea di costa e solo uno, San Vito Lo Capo che è, in realtà, a norma. È evidente che esiste un’Italia a diverse velocità. C’è chi fino ad ora ha investito, costruito aziende, anche fatto sacrifici, e non possiamo non ricordare che queste cose sono dello Stato e che siamo detentori di un suolo e su quel suolo abbiamo costruito aziende di diritto privato. È evidente che, in un’ottica di riassegnazione, qual valore deve essere riconosciuto e che, nei percorsi che andremo ad affrontare il valore aziendale, la professionalità e il know-how dovranno essere riconosciuti. Per contro ci sono molti aspetti negativi, perché ci sono molti tratti della costa italiana in cui è negato poter fare il bagno perché c’è chi è diventato proprietario di un bene pubblico, ci sono abusi edilizi a venti metri dalla battigia, aree strategiche e appetibili che fino a pochi anni fa pagavano 360 € all’anno e oggi ne pagano 2500. La situazione, tra regione e regione, è molto differente”.
Questa “mappatura” può anticipare il rischio che quel 67% di coste libere sia messo a bando?
“Per poter rispondere dovrei avere la sfera di cristallo, cosa che non ho. Valuto positiva l’azione del Governo perché questo tavolo istituito presso il Mit, oltre che alla verifica della ‘mappatura’ delle coste ai fini della scarsità della risorsa, deve anche raccogliere i dati necessari per la riforma organica del settore che, oggi, è inderogabile. Personalmente, non ho mai ritenuto che si potesse tornare indietro, ossia che le spiagge potessero essere escluse della direttiva Bolkenstein in funzione del fatto che si potesse dimostrare la scarsità della risorsa. Il mio rammarico è un altro, quello che, anziché impiegare gli ultimi due anni in una contraddizione politica tra gli schieramenti sul fatto che si debba andare a gara oppure no, si sarebbe dovuto ragionare sulla riorganizzazione del comparto. Il tema non è gare sì o gare no, ma riassegnare le concessioni secondo i principi previsti della direttiva tenendo conto della qualità del lavoro fatto dai concessionari, con il riconoscimento del valore aziendale, degli investimenti, come è in Veneto e in altre parti d’Italia. Non vorrei che questo atteggiamento fosse, invece, legato alla necessità di sorvolare là dove si è stati meno precisi e puntuali nella gestione, ma questo va a discapito di tutti”.