Non deve destare meraviglia che Cotrugli insista ripetutamente nel sostenere la piena legittimazione dell’attività mercantile-imprenditoriale e richiami i protagonisti di questa preziosa e indispensabile attività a viverla con consapevolezza e orgoglio. E perché, poi, dovremmo meravigliarci se anche oggi l’antica ignoranza e diffidenza verso gli uomini d’impresa è molto diffusa?
Quante volte nei recenti decenni abbiamo sentito i vertici dell’imprenditoria ripetere l’invocazione: «Al centro l’impresa». È stato vano sostenere, come molti hanno fatto, che «al centro non ci deve essere l’impresa ma la Costituzione», anche se l’impresa pretende e merita conoscenza, rispetto, ordinamenti legali utili e funzionali, consapevolezza e orgoglio per chi esercita l’imprenditoria con onore. Proprio come scriveva Cotrugli con un linguaggio certo più chiaro, responsabile ed equilibrato della maggioranza dei presidenti confindustriali degli ultimi sessant’anni. E mentre questi ultimi, di solito, vi attaccano richieste di contributi e agevolazioni, Cotrugli chiedeva solo conoscenza e rispetto.
Il secondo grande obiettivo di Cotrugli, del resto connesso con il primo, è quello di illustrare la natura e la funzione dell’impresa nell’ambito della società. Ho trovato in Cotrugli la più limpida, chiara e convincente definizione di quella che noi chiamiamo «impresa» e che lui chiama «mercatura». L’ho posta a raffronto con definizioni del nostro tempo e questo ci porta nel cuore di uno dei più attuali e tormentati dibattiti sulla natura e funzione dell’impresa.
Scrive Cotrugli: «mercatura è ‘arte overo disciplina intra le persone legiptime, iustamente ordinata in cose mercantili, per conservatione de la humana generatione, con sperança niente di meno de guadagno’».
Cotrugli non nega che il profitto (accumulazione) sia un importante obiettivo dell’impresa e dell’agire del mercante. In vari passaggi del volume rimarca e ribadisce, con vigore, il fine dell’arricchimento da parte del mercante-imprenditore. Ma la sua azione deve muoversi entro tre precisi paletti: deve svolgersi tra persone legittimate a praticare tale attività (antico principio di legalità); deve essere giustamente ordinata (antico principio del neminem laedere); deve portare al profitto attraverso la realizzazione di attività utili all’uomo e alla società («per conservatione de la humana generatione»).
Paragoniamo la definizione a quella di un maestro della moderna teoria d’impresa, a mio giudizio il più importante maestro d’impresa della seconda metà del xx secolo, Peter F. Drucker: «Le imprese […] sono organi della società. Esse non sono fini a se stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale […]. Esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono»30. In entrambe le definizioni il profitto è la legittimazione e l’obiettivo centrale, ma solo se realizzato attraverso il perseguimento di un compito utile e legittimo allo sviluppo della società. E, dunque, grazie a esse posso tranquillamente riprendere una delle mie lezioni: «Un’etica d’impresa non può essere derivata che dalla natura e dalla funzione dell’impresa nella società umana».
Le imprese, afferma Drucker, sono organi della società, non sono fini a se stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale, sono strumenti per assolvere «fini che le trascendono». Quali fini? Essenzialmente quello di contribuire allo sviluppo attraverso una continua creazione di produttività. «Designiamo con il termine impresa le attività consistenti nella realizzazione di innovazioni, chiamiamo imprenditori coloro che le realizzano» (Schumpeter)