PALERMO – Sulla base della nuova mappatura relativa al ciclo di programmazione 2021-2027 della Snai, la Strategia nazionale delle aree interne, esse comprendono oltre 4.000 Comuni, il 48,5% del totale. Si tratta di territori fragili nei quali i fenomeni demografici, come l’invecchiamento della popolazione e l’abbandono dei territori a causa delle migrazioni, sono esacerbati rispetto al resto del Paese e la cui analisi può essere d’ausilio come strumento di programmazione. È questa l’analisi contenuta dal Focus realizzato da Istat e presentato alla fine del mese di luglio.
Si tratta di un quadro devastante, quello di un Paese sempre più vecchio e con il proprio futuro oscurato dall’ombra dello spettro di generare paesi fantasma, località un tempo abitate ma abbandonate dall’intera popolazione e i cui edifici sono in parziale o totale rovina.
La Sicilia, purtroppo, non è nuova a tale fenomeno, anche se in passato fu causato da calamità naturali. Gioiosa Guardia, per esempio, è un borgo abbandonato nel 1783, a causa di un terremoto. I paesi di Poggioreale, Gibellina, Salaparuta e Montevago sono stati abbandonati dopo il terremoto del Belice del 1968 e ricostruiti altrove. Un altro borgo parzialmente abbandonato è Castanea, che a seguito di varie frane avvenute a cavallo fra il XIX e il XX secolo ha costretto la popolazione a ricostruire il paese in una nuova località più a monte. Del borgo rimangono solo alcuni ruderi. Poco sopra sorge una contrada abitata. A Monreale, nella città metropolitana di Palermo, vi sono altre due frazioni disabitate, Borgo Schirò e Borgo Borzellino. Nella città metropolitana di Messina si segnala Borgo Giuliano, frazione di San Teodoro completamente abbandonato e interdetto al pubblico per pericolo di crolli. Nel territorio del libero consorzio comunale di Caltanissetta vi è Borgo Guttadauro, villaggio tra Gela e Butera, la cui costruzione iniziata nel 1941, si concluse nel 1943 con la consegna al Demanio Aeronautico affinché vi si potesse stabilire il personale militare. Questa volta, però, il rischio principale è dato dal lento e continuo spopolamento che sta colpendo, soprattutto, le aree interne dell’Isola. Secondo i dati provvisori di Istat all’1/1/2024 la popolazione residente in Sicilia era di 4.794.512 individui, di cui 2.338.530 uomini e 2.455.982 donne. Al 30 aprile era invece pari a 4.785.678 individui, di cui 2.335.131 uomini e 2.450.547 donne con un saldo negativo pari a 8.834 individui.
Al 1° gennaio 2024, sulla base dei dati analizzati da Istat, nelle aree interne risiedono circa 13 milioni e 300 mila individui, circa un quarto della popolazione residente in Italia. Nei centri, invece, la popolazione è pari a 45 milioni e 700 mila individui (dati provvisori). In particolare, risiedono nei comuni intermedi 8 milioni di persone (pari al 13,6% del totale dei residenti in Italia), nei comuni periferici 4,6 milioni (7,8%) e, infine, nei comuni ultra-periferici, i più svantaggiati in termini di accessibilità ai servizi, 700 mila individui (1,2%).
Il calo generalizzato che ha interessato la popolazione residente in Italia dal 2014 a oggi (-2,2%), dopo oltre un decennio di crescita (+5,9% dal 1° gennaio 2002 al 1° gennaio 2014), si presenta in maniera differente nei comuni delle aree interne rispetto ai centri, così come diverso era stato l’aumento negli anni precedenti. Dal 1° gennaio 2002 al 1° gennaio 2014, la variazione nelle aree interne era stata, infatti, pari a +2,9%, più bassa quindi rispetto a quanto registrato nei centri (+6,8%). Dal 1° gennaio 2014 al 1° gennaio 2024 la popolazione residente nelle aree interne è poi diminuita del 5% (da 14 milioni a 13 milioni e 300mila individui), mentre quella dei centri dell’1,4% (da 46 milioni e 300mila a 45 milioni e 700 mila). La diminuzione assume contorni anche più intensi esaminando i comuni periferici e ultra-periferici. Se, tra il 2002 e il 2014, la popolazione dei comuni periferici ancora evidenziava una crescita dello 0,6%, quella dei comuni ultra-periferici aveva già intrapreso un percorso di evidente riduzione, pari al -3,1%. Tra il 2014 e il 2024, poi, il declino demografico risulta generalizzato ad ampia parte del territorio nazionale ma con più evidente forza nelle aree periferiche (-6,3%) e ultra-periferiche (-7,7%).
La dicotomia tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che vede quest’ultima ripartizione sperimentare tassi di variazione negativi più accentuati, si riscontra anche nelle aree classificate dalla Snai. Infatti, la perdita di popolazione nelle aree interne del Mezzogiorno (-6,3%, -483mila individui) è più intensa rispetto a quella nelle aree interne di Nord e Centro dove la diminuzione è, rispettivamente, del 2,7% e del 4,3% (oltre -100mila individui per entrambe). Nel Sud, tra i comuni in declino, oltre due terzi sono delle aree interne, mentre nel Centro-Nord i comuni interni sono oltre un terzo. Se, quindi, nel Centro-Nord, il calo demografico coinvolge quasi in egual misura i comuni interni e quelli centrali, nel Mezzogiorno la diminuzione della popolazione riguarda per lo più Comuni appartenenti alle aree interne e risulta, inoltre, più intensa rispetto a quanto accade per la stessa tipologia di comuni nel Centro-nord.
Il decremento demografico della popolazione residente è causato da un movimento naturale che da tempo risulta negativo. Il numero dei decessi supera quello delle nascite pressoché su tutto il territorio, per effetto del continuo calo dei nati che investe tutte le aree del Paese e di un tendenziale aumento dei decessi legato alla presenza di una popolazione sempre più anziana. Nel 2023 il tasso di crescita naturale (pari a -4,8 per mille in Italia) è uguale a -4,5 per mille nei centri e -5,8 per mille nelle aree interne, in diminuzione rispetto al 2002 quando i valori erano pari, rispettivamente, a -0,1 e -1,1 per mille. Nel periodo 2002-2023 i centri hanno registrato tassi lievemente positivi dal 2004 al 2009, mentre nelle aree interne sono sempre stati negativi e più consistenti. Nei comuni periferici il tasso è passato, dal 2002 a oggi, da -1,5 a -6,3 per mille, mentre in quelli ultra-periferici da -2,3 a -7,3 per mille, denotando una situazione nella quale il disequilibrio tra nascite e morti è più accentuato che altrove. Considerando l’intero periodo 2002-2023 il calo delle nascite è stato del 28,5% nei Centri e del 32,7% nelle aree interne. La differenza si deve ad aumenti annuali lievemente più intensi nei Centri nel periodo di ripresa delle nascite tra il 2002 e il 2008. A partire da tale anno, l’ultimo in cui si sia verificato un aumento del numero dei nati su base nazionale, l’entità del calo non mostra significative differenze tra aree interne e centri, -34,0% e -34,3% rispettivamente, per quanto nel corso del tempo i valori del tasso di natalità delle due aree si siano avvicinati.
Nel 2023 in entrambi i gruppi di comuni sono nati circa 6 bambini ogni mille abitanti (dati provvisori), in linea con la media nazionale. Scendendo nel dettaglio, però, mentre nei comuni polo tra il 2008 e il 2023 il calo delle nascite è risultato del 32,7%, in quelli ultra-periferici si è registrato un decremento del 36,1%. In quest’ultima tipologia di comuni, infine, il tasso di natalità nel 2023, pari al 5,8 per mille, si presenta tanto sotto il valore medio nazionale (6,4 per mille) quanto sotto quello delle Aree Interne nel complesso (6,3 per mille). Negli ultimi 20 anni i comuni delle aree interne, che hanno una popolazione più anziana di quella dei centri, hanno sempre registrato tassi di mortalità più elevati dei centri. Nel 2023 nelle aree interne si registra un tasso del 12,1 per mille, contro uno del 10,9 per mille nei Centri.
Altro importante elemento di fragilità demografica delle aree interne sono i significativi deflussi di popolazione che dai comuni intermedi, periferici e ultra-periferici si dirigono verso i centri o verso l’estero.
Avendo dimensione demografica minore e struttura per età più anziana, la dinamica migratoria delle aree interne è meno intensa rispetto ai centri. Nel periodo dal 2002 al 2023 i tassi migratori totali, tassi interni più tassi con l’estero, delle aree interne sono stati positivi, seppur contenuti, solo fino al 2011, grazie al contributo della forte pressione dell’immigrazione straniera che ha caratterizzato il primo decennio degli anni Duemila. In particolare, l’allargamento a Est dell’Unione europea del 2007 ha, di fatto, favorito l’emersione di centinaia di migliaia di cittadini romeni e bulgari presenti sul territorio senza l’obbligo di un permesso di soggiorno che si è tradotta in un aumento delle iscrizioni anagrafiche dall’estero.
Il flusso migratorio che si origina nelle aree interne e che si dirige verso i centri negli ultimi vent’anni è stato rilevante. Dal 2002 al 2023 si contano poco meno di 3 milioni e mezzo di movimenti che hanno interessato questa traiettoria e circa 3 milioni e 300mila che invece hanno coinvolto movimenti sulla traiettoria inversa, con una perdita complessiva dovuta allo scambio tra aree pari a poco meno di 190mila residenti delle aree interne, equivalenti alla scomparsa delle città di Siracusa e Ragusa. Quasi la metà delle partenze (46,2%) nasce da aree interne del Mezzogiorno, il 34,1% da quelle del Nord e il 19,7% da Aree interne del Centro. Specularmente, sono i centri del Nord che accolgono la prevalenza di queste partenze (50,8%), seguiti dai centri del Mezzogiorno (25,9%) e del centro Italia (23,3%).
Complessivamente, tre movimenti su cinque riguardano movimenti da aree interne a centri all’interno della stessa ripartizione geografica di residenza, ma è significativa la quota di flussi che dalle aree interne del Mezzogiorno si dirigono verso i centri del Nord Italia (16,9%), a conferma del fatto che la tradizionale traiettoria dal Mezzogiorno verso il Nord continua a essere una delle principali direttrici della mobilità interna che interessa il Paese.
Al 1° gennaio 2024, secondo i dati provvisori, l’età media della popolazione delle aree Interne risulta di sei mesi superiore rispetto a quella dei centri (47,0 contro 46,5 mentre per l’Italia nel complesso è 46,6). Rispetto al 2002, quando l’età media era pressoché uguale tra aree interni e centri, l’aumento è stato superiore proprio nelle aree interne: circa cinque anni, contro quattro anni e mezzo nei Centri (era 41,4 nei primi e 41,5 nei secondi). Le differenze nel livello d’invecchiamento tra aree interne e centri sono ancora più evidenti guardando all’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra la popolazione ultra-sessantacinquenne e quella fino a 14 anni di età. L’indice, che per le aree Interne e i centri era, al 1° gennaio 2002, pari rispettivamente a 133% e 131% è, al 1° gennaio 2024, uguale a 214% e 196% (200% per l’Italia). Se quindi, oltre 20 anni fa, le differenze tra le due aree erano piuttosto lievi, oggi risultano più significative, per effetto non solo dell’aumento della componente più anziana della popolazione, che caratterizza le aree interne quanto i centri, ma per una più marcata diminuzione di quella giovanile nelle aree interne, causata sia dal calo delle nascite sia dall’emigrazione dei più giovani, particolarmente intensa in queste ultime. Ancora una volta più fragili appaiono i comuni periferici e ultra-periferici dove, al 1° gennaio 2024, ci sono, per 100 bambini al di sotto dei 15 anni, rispettivamente ben 225 e 243 anziani.
La popolazione over 65enne è aumentata, tra il 1° gennaio 2002 e il 1° gennaio 2024, di 5,6 punti percentuali nelle aree Interne e di 5,7 punti percentuali nei centri. Al 1° gennaio 2024 la percentuale di anziani rispetto al totale continua però a essere più alta nelle prime (25,2%) rispetto ai secondi (24,1%), per effetto di una diminuzione più forte del resto della popolazione, soprattutto quella giovanile, nelle aree interne rispetto ai Centri. La popolazione fino a 14 anni è, infatti, diminuita di 3,0 punti percentuali nelle aree interne e di 1,7 punti nei Centri, mentre quella in età attiva, dai 15 ai 64 anni, è scesa di 2,6 punti nelle prime e di 4,0 punti nei secondi. Al 1° gennaio 2024 la popolazione in quest’ultima fascia di età costituisce il 63,0% della popolazione totale nelle aree Interne e il 63,6% nei centri, mentre quella più giovane (0-14) rappresenta, rispettivamente, l’11,8% e il 12,3%. I comuni periferici e ultra-periferici, dal loro canto, mostrano livelli d’invecchiamento ancora più elevati. La popolazione oltre i 65 anni costituisce infatti il 25,9% e il 26,8% nei comuni, rispettivamente, periferici e ultra-periferici, mentre la fascia di popolazione al di sotto dei 15 anni è pari all’11,5% e all’11,0%.
Le previsioni sul futuro demografico dell’Italia, aggiornate al 2023, confermano il declino della popolazione nel breve e medio periodo. Lo scenario di previsione “mediano” contempla un calo di popolazione da 59 milioni al 1° gennaio 2023 (anno base) a 58,2 milioni nel 2033 (-1,4%) sino a 56,5 milioni nel 2043 (-4,3% rispetto al 2023). La variazione sull’anno base, nel breve e nel medio periodo, risulta più accentuata per i comuni delle aree interne (-3,8% e -8,7%) rispetto ai comuni dei centri (-0,7% e -3,0%). La quota prevista di Comuni in declino per tutto il Paese è pari al 69,9% entro 10 anni e al 74,5% entro 20. Differenze significative, soprattutto nel medio periodo, tra le aree interne e i centri dove il calo demografico riguarderà, rispettivamente, l’82,1% e il 67,3% dei comuni. Per le recenti previsioni demografiche, tra 10 anni quasi il 90% dei comuni delle aree interne del Sud subirà un calo demografico, con quote che raggiungeranno il 92,6% nei Comuni ultra-periferici. Le previsioni del medio periodo, inoltre, forniscono un quadro ancora in peggioramento, con quote di comuni in declino che, tra 20 anni, raggiungeranno il 93%. Situazione migliore nel Centro-Nord, che conferma disparità esistenti tra aree con le medesime condizioni di fragilità in termini di accessibilità, ma che si trovano in aree geografiche diverse.
I giovani qualificati costituiscono una parte rilevante del capitale umano di un Paese, che su di essi investe in istruzione e formazione allo scopo di promuovere il loro inserimento in un mercato del lavoro sempre più competitivo a livello internazionale. L’esperienza migratoria dei giovani laureati non necessariamente assume una connotazione negativa, qualora si traduca in un’emigrazione temporanea e sia seguita da un rientro dopo brevi periodi. In questi casi, le competenze acquisite durante la permanenza fuori dal luogo di origine (estero o altro Comune italiano) possono essere utili a trasferire know-how nei settori economici dei territori di partenza.
Quando invece l’emigrazione di capitale umano è permanente e non è rimpiazzata da un volume di rientri di giovani qualificati almeno equivalente, la perdita di popolazione dovuta alle migrazioni ha un peso socio-economico più gravoso e impatta ancora più negativamente sul tessuto produttivo dei luoghi di partenza, soprattutto di quelli più fragili come le aree interne. Negli ultimi 20 anni, il numero di giovani laureati italiani che dalle aree interne si sono trasferiti verso i Centri o verso l’estero, è costantemente aumentato, mentre molto meno numerosi sono stati i flussi sulla traiettoria opposta.
Tra il 2002 e il 2022 si sono complessivamente spostati dalle aree interne verso i centri poco meno di 330 mila giovani laureati di 25-39 anni, mentre appena 45 mila verso l’estero. Nello stesso periodo, sono rientrati verso le aree interne 198mila giovani laureati dai centri e 17mila dall’estero. Ne consegue che la perdita di capitale umano delle aree interne è pari a 132mila giovani risorse qualificate a favore dei Centri e di 28mila a favore dei Paesi esteri. Complessivamente, lo svantaggio per le aree interne è pari a 160 mila giovani laureati.
È successo in Italia, in Germania e in altri dodici Paesi in giro per il mondo. Nei primi vent’anni del nuovo millennio, il declino demografico è stato evitato solo grazie ai flussi di cittadini migranti che hanno varcato i loro confini e si sono stabiliti nelle aree interne dei diversi Paesi.
Uno studio pubblicato lo scorso 8 luglio dal “Pew Research Center” di Washington ha calcolato come i nuovi residenti venuti dall’estero abbiano influito sui bilanci demografici dei singoli Paesi. Tra il 2000 e il 2020, la popolazione globale è aumentata di circa 1,7 miliardi di persone. Non dappertutto, però, in maniera omogenea e seguendo le stesse dinamiche. Così, secondo l’istituto statunitense, la popolazione italiana è cresciuta di 2,7 milioni di persone nell’arco dei vent’anni presi in considerazione, ma sarebbe diminuita di 1,6 milioni di individui se non fosse stato per l’arrivo di migranti principalmente provenienti da Romania, Ucraina e Albania. Lo studio mette a confronto solo le cifre relative all’inizio e alla fine del periodo considerato, ma è utile ricordare che i dati Istat su base annua riferiscono di una diminuzione progressiva della popolazione residente in Italia in atto a partire dal 2015, configurando per la prima volta in novant’anni una fase di declino demografico.
Il dato è confermato in Calabria, regione in cui i cittadini stranieri sono 94.203 e rappresentano il 5,1% della popolazione complessiva, secondo i dati contenuti nell’ultima edizione del Dossier statistico Immigrazione del Centro studi e Ricerche Idos. Nello scorso anno, la popolazione italiana residente in Calabria ha perso, a causa della differenza tra nati e morti, più di 10mila persone mentre la popolazione straniera in regione ha un guadagno demografico di 664 unità. Il dossier conclude, quindi, che l’immigrazione contribuisce anche a ridurre il rapporto di dipendenza degli anziani e mitigare il declino della popolazione in età lavorativa. Anche il contributo degli immigrati all’economia italiana e al suo sistema di protezione sociale continua a essere positivo: nel 2021 il saldo tra spese, 28,2 miliardi di euro e introiti, 34,7 miliardi di euro, dello Stato imputabili all’immigrazione ha segnato un guadagno per l’erario pubblico di 6,5 miliardi di euro, fortemente cresciuto rispetto al 2020, circa un miliardo di euro in più, grazie alla ripresa post-pandemica dei settori in cui gli stranieri sono più impiegati. Analogamente, dal 2011 al 2021, se le imprese in capo a italiani sono diminuite del 4,1%, quelle gestite da immigrati sono cresciute del 41,5%. Nel 2022, con ulteriori 5 mila nuove attività aperte nell’anno, le imprese di immigrati operanti in Italia si avvicinano a quota 650mila (il 10,8% del totale). A crescere sono soprattutto l’imprenditorialità femminile e le società di capitali.
Secondo la programmazione dei flussi decisa dal Governo in settembre, in tre anni saranno ammessi in Italia complessivamente 452 mila lavoratori stranieri di cui 136 mila già previsti nel 2023 cui si sommano i 151mila previsti per il 2024 e gli 165 mila previsti nel 2025. Ma il provvedimento, varato su forte pressione dei datori di lavoro è ancora molto lontano dal coprire l’effettivo fabbisogno, stimato dallo stesso Governo in 833 mila lavoratori nello medesimo arco di tempo.
L’Italia è percorsa da una voce unanime: se la politica non attua le scelte giuste, il calo demografico e lo spopolamento delle aree interne non saranno solo un problema ma diventeranno un vero e proprio disastro incontrollabile. Il QdS ha raccolto, dalla Sicilia al Piemonte, il grido di allarme che arriva dai territori.
“Abbiamo subìto – dichiara Francesco Paolo Cortolillo, sindaco di Sant’Angelo di Brolo, comune della città metropolitana di Messina – un importante depauperamento e una netta discesa di popolazione. Solo un terzo della popolazione risiede nel centro urbano e la parte rimanente nelle 41 borgate che caratterizzano il nostro territorio. Da un lato c’è stato un fenomeno di emigrazione in parte verso la costa ma negli anni Sessanta c’è stato un grande flusso migratorio che ha portato la popolazione a trasferirsi per motivi di lavoro nel resto dell’Italia e nelle Mitteleuropea. Inoltre nel nostro comune è cresciuta la parte di popolazione più anziana e il tasso di natalità rasenta lo zero”.
“A questo – aggiunge – ancora una volta, si addiziona che molti giovani, per costruire il proprio futuro e avere sbocchi occupazionali, sono costretti a ‘cercare fortuna’ altrove, come già successe agli inizi del Novecento. Questo fenomeno, in generale nel meridione, ha ragioni endemiche, ma dobbiamo tenere presente che l’attuale impoverimento obbliga molte famiglie a decidere di non avere un secondo figlio, proprio perché hanno paura di non poter affrontare, dal punto di vista economico, la scelta”.
La situazione nel Sud Italia è confermata, anche, da Francesco Macrì, presidente del Gal Terre Locridee – Gruppo di azione locale che persegue obiettivi connessi alla ideazione e attuazione di strategie di sviluppo locale e processi di sviluppo rurale – il quale spiega come “i paesi interni custodiscono cultura, tradizioni e tipicità che rischiano di scomparire con lo spopolamento. Parliamo quindi della perdita di un patrimonio culturale inestimabile, con l’abbandono della produzione di prodotti tipici e di importanti risorse naturali. E con una grave ricaduta negativa anche sulle aree limitrofe. Un comprensorio vasto come la Locride non può permettersi il depauperamento delle aree interne. Dobbiamo perciò contrastare il fenomeno dello spopolamento con azioni mirate, in particolare con la promozione delle risorse culturali e naturali identitarie di queste aree, come il Gal fa da tempo e intende continuare a fare in maniera sempre più incisiva”.
L’Abruzzo sta ancora pagando i danni causati dal terremoto del 2016 e, oltre ai dati generalizzati sul calo demografico, registra l’impossibilità di vivere grande parte del suo territorio e, a tal proposito “l’attività che stiamo svolgendo per la ricostruzione e la rigenerazione dei territori e delle comunità del Centro Italia colpiti dalle sequenze sismiche del 2016-2017 – evidenzia il commissario alla Riparazione e Ricostruzione sisma 2016, senatore Guido Castelli – percorrono la via maestra del contrasto all’abbandono dei luoghi: per fare questo occorre difendere gli insediamenti umani, a partire dal presidio agricolo-silvo-pastorale”.
L’allarme che riguarda le Marche arriva invece da monsignor Angelo Spina, arcivescovo metropolita di Ancona-Osimo, che sottolinea come che l’invecchiamento e lo spopolamento del territorio siano fenomeni preoccupanti “cui la politica dovrebbe porre attenzione e non essere miope e sorda. Facendo le visite pastorali, dai registri delle parrocchie viene fuori che le persone che ogni anno muoiono sono in numero crescente e poche le nascite. La mancanza di lavoro ha costretto tante famiglie ad andare via e per quanto riguarda i giovani la situazione è drammatica. Da un decennio si sta assistendo a quella che io chiamo ‘la desertificazione umana’. Questo causerà la perdita di storia, di cultura, di civiltà, di tradizioni. Tanti dei nostri paesi resteranno vuoti, per essere riempiti solo per un mese durante l’estate”.
Nemmeno l’operoso e fertile Nord è immune dal fenomeno, tanto che Lino Gentile, delegato Anci per le aree interne, spiega che, per contrastare la crisi demografica che sta colpendo questi territori dove i cittadini hanno meno servizi e opportunità di vita, “le aree interne sono soggetti portatori di opportunità per lo sviluppo locale e non territori da assistere” e proprio per questo “con il nostro programma ‘Controesodo’ abbiamo posto l’accento sull’importanza di creare condizioni utili innanzitutto per favorire una nuova occupazione, quindi economia e lavoro, con investimenti all’avanguardia che possano avvicinare i Comuni più periferici ai centri di servizi essenziali e invertire la tendenza all’abbandono di gran parte delle aree del Paese. Un problema che riguarda l’intera nazione anche per le ripercussioni, ad esempio, in termini di dissesto idrogeologico per la mancanza di un presidio. Negli ultimi quarant’anni circa 2000 Comuni hanno perso fino all’80% della popolazione”.