Inchiesta

Contro l’Italia 83 procedure di infrazione ma si continua a violare il Diritto dell’Ue

ROMA – 878 milioni di euro: è il salatissimo conto che l’Italia, e in primis i contribuenti, ha maturato per le sue “marachelle” nei confronti del diritto dell’Unione europea tra il 2012 e giugno 2022, così come dichiarato dal Ministero Economia e finanze. Si tratta di ben 83 procedure aperte nei confronti del nostro paese per mancato recepimento di direttive comunitarie o violazioni del diritto Ue. Attenzione però perché, come già sottolineato più volte tra le colonne del QdS, attualmente stiamo effettivamente pagando solo per sei procedure di infrazione che sono giunte a “seconda condanna”. Questo perché, prima di comminare una sanzione pecuniaria allo Stato non in regola, “mamma” Europa manda diverse raccomandazioni a quest’ultimo per adeguarsi a quanto richiesto, con scadenze piuttosto dilatate nel tempo. Per intenderci, prima di arrivare alla fase della seconda condanna, passano in genere dai tre ai quattro anni.

La fotografia delle infrazioni

A voler fare una fotografia delle attuali procedure d’infrazione a carico del nostro Paese, delle 83 procedure aperte, 16 sono afferenti al settore ambientale (che da solo rappresenta il 25% delle segnalazioni), 13 agli Affari economici e finanziari, 9 ai Trasporti, 7 alla Giustizia, 6 al settore Concorrenza e aiuti di Stato e 5 al campo Energia. Non tutte, però, allo stato attuale prevedono il pagamento di un’ammenda o penalità in mora e, tutto sommato, possiamo dire di non essere neanche gli ultimi della classe tra i paesi europei, in quanto ci troviamo al settimo posto della classifica comunitaria per mancato adeguamento alle indicazioni della Commissione.

Il fardello più grande che incide sulle tasche degli italiani è rappresentato dalla questione “Discariche abusive” ed “Ecoballe Campania” per la quali, conti alla mano, abbiamo già sborsato fino al 2020 (dati Corte dei conti) cifre da capogiro: rispettivamente 232,68 milioni per la prima e 217,5 milioni per la seconda. Considerata l’attuale condizione della gestione dei rifiuti nella nostra nazione, specie al Sud, sembra ancora lontana la possibilità di chiudere la vicenda a breve termine.

Altri 114 milioni, poi, li abbiamo dovuto versare all’Ue per il mancato recupero di aiuti di Stato concessi a favore di alcune imprese di Venezia e Chioggia, così come previsto dalla sentenza C-367/14. Una mancanza, questa, che ci è costata un’ammenda da 30 milioni una tantum, più una penalità di mora da 12 milioni di euro a semestre. Segue poi l’altra delicatissima questione delle acque reflue: con sentenza C-251 del 2017, infatti, la Corte di Giustizia europea ci ha giudicati colpevoli per la scorretta gestione degli impianti di collettamento, fognature e depurazione: una ferita da appena 102 milioni in 8 anni.

Cifre più piccole ma che comunque gravano sul totale delle sanzioni a carico dell’Italia per quanto riguarda il settore formazione e lavoro. Stando alla valutazione della Commissione, infatti, il nostro Paese non ha provveduto a recuperare gli aiuti di Stato, sotto forma di sgravi contributivi, per imprese che assumevano disoccupati con contratti di formazione e lavoro. Una leggerezza che ci ha fatto uscire 78,8 milioni di euro di cui 30 come ammenda iniziale e i restanti come penalità di mora. Infine, nel 2020 siamo stati condannati a pagare una sanzione una tantum da 7 milioni e 500 mila euro per non aver mai recuperato integralmente gli aiuti di Stato concessi a favore di imprese alberghiere della Sardegna, con la sentenza C-576/18. Conto salatissimo per ogni giorno in cui non ci adeguiamo alle richieste Ue: 80 mila euro.

Lo spettro “Bolkestein”

Anche se la classifica europea non ci vede tra i più indisciplinati, il peso delle sanzioni, in primis economico, a carico del nostro Paese è ancora piuttosto importante. Come se non bastasse, poi, aleggia sui possibili provvedimenti correttivi futuri da parte dell’Ue anche la questione concessioni balneari. La Commissione Europea, infatti, ci ha inviato una lettera di costituzione in mora relativa al rilascio di autorizzazioni per l’uso del demanio marittimo per il turismo balneare e i servizi ricreativi.

Il prolungamento delle concessioni balneari fino al 2024, che aspetta solo il via libera definitivo dalla Camera (pressoché scontato visto che il Governo pare orientato a blindare il voto con la fiducia), ha subito infastidito l’Ue che aveva già aperto una procedura di infrazione a carico dell’Italia per il mancato rispetto della direttiva Bolkestein. “Cogliamo l’occasione per ribadire che il diritto Ue richiede che le norme nazionali” sui servizi “assicurino la parità di trattamento degli operatori, promuovano l’innovazione e la concorrenza leale” e “proteggano dal rischio di monopolio delle risorse pubbliche”. Lo ha dichiarato al QdS un portavoce della Commissione Ue. Quanto ci costerà? Ancora non è dato saperlo perché non si è giunti alla seconda condanna, ma – rebus sic stantibus – appare inevitabile.

Qual è l’iter di una procedura di infrazione?
Risponde il professore Antonino Alì dell’Università di Trento

Antonino Alì

Il percorso che va dalla segnalazione di un’infrazione a uno degli Stati membri da parte della Commissione europea segue numerosi passaggi che, a primo impatto, possono sembrare astrusi per i comuni cittadini. Per fare chiarezza sulla questione ci siamo confrontati con Antonino Alì, professore di diritto internazionale all’Università di Trento.

In che modo viene stabilita una procedura d’infrazione nei confronti di un Paese Ue?
“Il diritto dell’Ue prevede una serie di procedure in termini di infrazioni e sanzioni per garantire il rispetto dello stesso. Tale sistema viene gestito dalla Commissione europea che possiamo definire come il ‘guardiano dei trattati’, un vero e proprio custode o poliziotto della legalità comunitaria. Uno dei momenti centrali per garantire il rispetto del diritto comunitario è rappresentato dalla procedura di infrazione che è strutturata in due fasi. La prima si svolge propriamente davanti alla Commissione, in cui l’obiettivo non è avere una certificazione della violazione dello Stato membro, bensì lo scopo primario è quello di assicurare la compliance, ovvero la conformità al diritto Ue. Mentre nel diritto internazionale uno dei problemi fondamentali è il rispetto del diritto stesso, per quanto riguarda il regolamento comunitario piuttosto che comminare solo ed esclusivamente una sentenza, si preferisce trovare un modo per sollecitare lo stato violante a conformarsi alle regole, che è molto più importante di imporre una sanzione. Questo ci permette di capire che la fase di procedura d’infrazione che si svolge di fronte alla Commissione Ue è di primaria importanza e ci spiega perché la maggior parte delle segnalazioni di infrazione di esauriscono in questo primo step perché gli Stati si adeguano a quanto richiesto dal diritto Ue. Il percorso completo, infatti, parte da una lettera di messa in mora da parte della Commissione che indica la presunta violazione al destinatario e gli indica un termine specifico entro il quale mettersi in regola. Ad esempio, lo scorso 15 febbraio vi è stato l’avvio della messa in mora nei confronti dell’Italia per quanto concerne il reddito di cittadinanza. In questo caso la Commissione ha segnalato al nostro Paese la violazione. Quest’ultimo ha due mesi di tempo per rispondere ai rilievi espressi dalla Commissione. In questo senso l’organo comunitario, va detto, ha potere assoluto: se cominciare la segnalazione o, ancora, inviare un parere motivato, ovvero lo step successivo alla messa in mora. Rispetto a queste indicazioni, lo Stato membro può decidere se adeguarsi a quanto richiesto o, in alternativa, dissentire rispetto alle indicazioni comunitarie. Giunti a questo punto la Commissione può inviare un parere motivato in cui indica al paese un ulteriore termine entro il quale allinearsi alle indicazioni comunitarie, una sorta di seconda raccomandazione”.

Come si arriva alla sanzione?
“Nel caso in cui, di fronte al parere motivato, il Paese a cui è stata segnalata l’infrazione continua a non assolvere a quanto richiesto dalla Commissione, quest’ultima può (non deve) rivolgersi alla Corte di Giustizia e portare all’apertura di un processo nei confronti dello Stato insolvente. La prima sentenza della Corte è di accertamento, ovvero verifica che l’infrazione sia effettiva ma non si parla ancora di sanzione. Lo Stato dovrebbe a questo punto conformarsi ma, nel caso in cui non lo faccia, la Commissione lo sollecita nuovamente con una nuova scadenza, pena l’apertura di un nuovo processo di fronte alla Corte di Giustizia che prevederà una penalità di mora o un’ammenda. Si tratta di due cose differenti: nel primo caso, infatti, si stabilisce il pagamento di una cifra specifica, ad esempio 60 mila euro. Nel secondo caso, invece, si stabilisce una cifra che il Paese dovrà pagare ogni tot di tempo, fino a quando non si conformerà a quanto richiesto. Per intenderci, ad esempio, l’Italia potrà essere condannata a pagare 20 mila euro ogni 6 mesi fino a quando non recepirà la direttiva in oggetto. Alla penalità di mora o all’ammenda, dunque, si arriva solo in una fase finale ma è necessario arrivare davanti alla Corte di Giustizia per ben due volte, quella che viene definita ‘seconda condanna’. Va sottolineato però che nel caso del mancato recepimento delle direttive Ue, la Corte di Giustizia può provvedere già con una penalità di mora o un’ammenda, quindi vi è una tutela rafforzata. In ogni caso, in genere, prima di una seconda condanna passano dai 3 ai 4 anni. Dal 2012 ad oggi, stando alle rilevazioni della Corte dei conti, ci avviciniamo intorno al miliardo di debiti per le infrazioni nei confronti dell’Ue. In ogni caso va sottolineato che vige il principio del primato del diritto dell’Unione europea rispetto alla legislazione nazionale, dunque il Paese interessato non può in alcun modo sottrarsi a quanto richiesto. Si tratta di una questione molto importante perché, poichè vi sono dei movimenti di denaro tra lo Stato e l’Unione europea (e viceversa), una volta che lo Stato viene condannato al pagamento di una mora, l’Ue potrebbe anche trattenere una parte di finanziamenti destinati ad esso. Il meccanismo è dunque molto forte e non è un caso che dal 2012 ad oggi abbiamo avuto un’accelerazione in tal senso e il Dipartimento delle Politiche europee che ha svolto un lavoro egregio per adeguarsi il prima possibile a quanto richiesto. Va tenuto poi in considerazione un dato importante, ovvero che non si può fare una lista dei ‘cattivi’ solo su base numerica delle violazioni effettuate. Ci sono varie nature e gravità di infrazioni e il numero non definisce necessariamente il peso dell’inadempienza in questione”.

Perché, allora, non ci adeguiamo alle indicazioni Ue prima di pagare la sanzione? Rischiamo che succeda lo stesso con la questione Bolkestein?
“Vi sono tante ragioni. Il primo è sicuramente che vi sono degli interessi dietro al recepimento di una legge, in primis di natura politica ed economica. Pensiamo alla questione delle concessioni balneari, di fronte alla quale si preannuncia il pagamento di una sanzione importante, così come per quanto riguarda per le violazioni in materia ambientale. La scelta più corretta per il recepimento della legge Bolkestein sarebbe chiudere la vicenda dal punto di vista politico e adeguarci nel più breve tempo possibile prima di dover sborsare migliaia e migliaia di euro di sanzione. Il rischio è che ciò che guadagneremo come concessione lo dovremo restituire all’Ue sotto forma di penalità di mora, mentre potremmo sfruttare questi anni per adeguarci a quanto richiesto”