Cronaca

Corruzione, Messina, otto anni e tre mesi a Emilia Barrile

L’ex presidente del Consiglio comunale di Messina Emilia Barrile è stata condannata a otto anni e tre mesi di carcere per corruzione nell’ambito del processo “terzo livello” che ha accertato l’esistenza di un comitato di affari composto da professionisti, politici ed esponenti della criminalità che gestivano la cosa pubblica messinese.

La Procura, guidata da Maurizio De Lucia, ipotizzò a carico dei 17 rinviati a giudizio, a vario titolo, i reati di associazione a delinquere, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, induzione indebita, accesso abusivo a un sistema informatico e intestazione fittizia di bene.

Un solo imputato, Leonardo Termini, è stato assolto.

Queste le pene degli altri: Marco Ardizzone, 8 anni e 8 mesi; Giovanni Luciano, 2 anni e 3 mesi; Francesco Clemente, un anno e 3 mesi; Carmelo Pullia, un anno e 8 mesi; Antonio Fiorino, 2 anni e 3 mesi; Daniele De Almagro, 2 anni e 6 mesi; Angelo e Giuseppe Pernicone, 2 anni; Vincenzo Pergolizzi, 5 anni e 6 mesi; Carmelo Cordaro, 4 anni; Michele Adige, 4 anni; Vincenza Merlino, 4 anni; Teresa Pergolizzi, 2 anni e 6 mesi; Stefania Pergolizzi, 2 anni e 6 mesi; Sonia Pergolizzi, 2 anni e 6 mesi.

Candidata anche a sindaco di Messina

La Barrile, arrestata nell’agosto del 2018, si era anche candidata a sindaco alle ultime amministrative, dopo la rottura con Francantonio Genovese, oltre a essere stata presidente del Consiglio comunale nei cinque anni di sindacatura Accorinti.

I magistrati la accusavano di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di plurimi reati contro la pubblica amministrazione, atti contrari ai suoi doveri, accesso abusivo ai sistemi informatici del Comune.

In particolare la Barrile avrebbe violato l’accesso al sistema comunale, per estrapolare dei dati a favore di imprenditori da lei favoriti.

Secondo gli investigatori, inoltre, gestiva attraverso prestanome due cooperative, la Peloritana Servizi e la Universo Ambiente.

Un comitato d’affari che condizionava il Comune

Secondo i pm imprenditori, la Barrile era al centro di un comitato d’affari composto da funzionari comunali, costruttori e manager delle municipalizzate, che condizionava a fini privati l’attività del Comune.

Tra le persone coinvolte anche il direttore generale dell’azienda di trasporti Atm, Daniele De Almagro, che sarebbe stato favorito dalla Barrile in cambio dell’assunzione nella società di un autista, che non aveva i requisiti per svolgere il lavoro, il costruttore Vincenzo Pergolizzi a cui Barrile avrebbe fatto acquistare, grazie alla complicità del funzionario comunale Francesco Clemente, il terreno comunale dove doveva realizzare una palazzina.

Tra i condannati anche il commercialista Marco Ardizzone e gli imprenditori Angelo Pernicone e Giuseppe Pernicone, titolari di una società di vigilanza che svolgeva l’attività in occasione di eventi allo stadio. In cambio di agevolazioni nelle pratiche amministrative la Barrile avrebbe ottenuto l’assegnazione a una coop che controllava della gestione dei punti di ristoro allo stadio.

Ardizzone considerato il “consigliori” della Barrile

Marco Ardizzone, che ha avuto la pena più alta, è ritenuto il “consigliori” della Barrile.

Fin dagli anni Novanta, secondo gli investigatori, sarebbe stato vicino al gruppo criminale mafioso dei Mancuso.

La Barrile, approfittando del suo ruolo politico, avrebbe fatto avere a una coop che controllava, la “Universo e Ambiente”, il servizio di pulizie dell’Amam, l’Azienda meridionale delle acque.

Alle dipendenze della società è stato assunto con un ruolo di vertice Carmelo Pullia, mafioso del clan Mancuso recentemente scarcerato dopo una detenzione ventennale.

Le cooperative riconducibili alla ex presidente del Consiglio, anche grazie a una alternanza tra periodi di lavoro e periodi di disoccupazione gestiti tramite patronati compiacenti, venivano usate come strumento per dare posti di lavoro e acquisire un diffuso “consenso popolare”.

Dall’inchiesta sarebbe emerso anche il tentativo di Pergolizzi, vicino alla mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e sottoposto a misura di prevenzione, di sottrarre, attraverso la complicità di familiari e persone di fiducia, il suo patrimonio al sequestro antimafia e di evitare il recupero del credito erariale, quasi un milione di euro, da cui le sue società erano gravate.

Con una serie di “trasformazioni” societarie per mezzo dei propri familiari, aveva inscenato fittizie controversie con dipendenti di fiducia, per svuotare fraudolentemente le società di beni e capitali.