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Covid-19, un decesso su sei in pazienti affetti da demenza

Il 15,8% dei decessi legati alla pandemia da Sars-CoV-2 negli ospedali italiani ha riguardato persone affette da demenza. Pazienti che presentavano al pari di altri la febbre come sintomo di esordio, ma che, a differenza di chi non aveva demenza, mostravano meno frequentemente, probabilmente proprio a causa dei problemi cognitivi, i sintomi tipici dell’infezione, quali dispnea (68,8% vs. 74,3%) e tosse (30,9% vs. 40,3%). Avevano inoltre minori possibilità di ricevere terapie di supporto e di avere accesso alla terapia intensiva, e mostravano un peggioramento clinico più rapido e aggressivo rispetto agli individui con cognizione piena.

è questo lo scenario delineato dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità che in uno studio apparso su Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring, hanno esaminato le cartelle cliniche di 2.621 pazienti deceduti per Covid-19 e, tra questi, ne hanno identificati 415 affetti da demenza, tracciandone un identikit fisico – più frequentemente donne (47,2% contro 29,6%) e più anziani (84,3 contro 77 anni), rispetto agli individui senza demenza – e clinico – una maggiore prevalenza di fibrillazione atriale (27% vs. 21,4%), di ictus (18,8% vs. 9%) e una minore prevalenza di diabete (25,5% vs.32,1%), di cancro attivo (11,3% vs. 16,9%) e di obesità (3,6% vs.12,4%).

“Sulla base dei nostri risultati, circa un decesso su sei correlato a Covid-19 si è verificato in persone con diagnosi di demenza – evidenzia Graziano Onder, direttore del Dipartimento malattie cardiovascolari e dell’invecchiamento dell’Iss – Ed è assai probabile che sia stata proprio la demenza ad influenzare significativamente e negativamente la sintomatologia, il decorso e la gestione delle persone colpite, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalle comorbilità”.

“I meccanismi di difesa più deboli, lo stretto contatto fisico con chi si prende cura di loro, la scarsa aderenza alle misure di salvaguardia e alle pratiche igieniche- va avanti Marco Canevelli, ricercatore presso l’ISS e primo autore dell’indagine – hanno esposto queste persone a un maggiore rischio di infezione . Inoltre, la difficoltà nel segnalare i sintomi e la presenza manifestazioni atipiche e fuorvianti (ad es. confusione e quadri di delirium) hanno potuto contribuire ad una diagnosi e ad una gestione tardiva. Non stupisce perciò che questi pazienti abbiano anche mostrato un peggioramento clinico più accentuato e aggressivo, come suggerito dai tempi più brevi tra l’insorgenza clinica, il ricovero ospedaliero e la morte”.