“E’ lunghissimo!”.
Questa, sui social, è una delle critiche più frequenti a “La stanza degli abbracci”, corto di due minuti e venti secondi realizzato pro bono – ovverosia gratis – dal regista Giuseppe Tornatore per la campagna di vaccinazione contro il coronavirus.
E mentre nella nostra Isola queste particolarissime stanze si vanno moltiplicando – due giorni fa a Siracusa in una Rsa, ieri nell’hospice del Maria Paternò Arezzo di Ragusa – sui cosiddetti “media sociali” si continua a dibattere sul film – è ben più di uno spot, anche per via della struggente colonna sonora di Nicola Piovani – realizzato dal regista siciliano.
In un mondo, quello dei social, in cui un geometra (con tutto il rispetto per la categoria) che abbia fatto una rapida ricerca su Wikipedia si sente in grado e forse in dovere di confutare le teorie di un Nobel per la Fisica, l’idea di poter demolire un premio Oscar e sentirsi dunque superiori a lui ha, certo, scatenato leoni e leonesse da tastiera.
“Non è pubblicità” è stato infatti il secondo rilievo più frequente a “La stanza degli abbracci”, venuto da quella galassia di veri o presunti esperti di marketing & comunicazione che non hanno mancato di sottolineare come sul canale YouTube del Governo, i pollici in giù per il video fossero oltre sedicimila a fronte di poco più di milleduecento like.
Tutti avrebbero preferito, e lo dichiarano, uno spot didascalico, e lamentano che non si pronunci esplicitamente la parola vaccino. Concludendo che un affare così importante avrebbe dovuto essere affidato a un esperto di Comunicazione.
Come se un regista non lo fosse.
Eppure Tornatore aveva detto chiaramente, presentando “La stanza degli abbracci” – peraltro il primo di una trilogia -, di aver voluto “evitare la dimensione didascalica, informativa e didattica, per trasmettere una riflessione attraverso un clima emotivo”.
Emozionare, già.
Come accade agli umani.
Magari guardando l’immagine di Raffaela, paziente oncologica, che, nell’ospedale ragusano Maria Paternò Arezzo si è commossa riabbracciando la cognata, finora vista soltanto in videochiamata.
Emozionare.
Perché, secondo il regista, “Le persone che dicono di non volersi sottoporre al vaccino non vanno colpevolizzate, ma comprese e aiutate”.
Con i giusti tempi.
E così torniamo alla questione del tempo.
Va ricordato che critiche sulla lunghezza dell’opera vennero mosse, all’inizio del secolo scorso, a un autentico monumento letterario, pubblicato in sette volumi, per quasi dieci milioni di caratteri, tra il 1913 e il 1927.
“Alla ricerca del tempo perduto”, si intitolava, e l’autore era un tale Marcel Proust.
Allora come oggi il messaggio nascosto nei giudizi sprezzanti sulla presunta lunghezza eccessiva è “non abbiamo tempo da perdere (con queste sciocchezze)”.
Ma cosa dovremmo farcene, di tutto questo tempo, dopo che il coronavirus lo ha privato di qualunque senso: chiusi in casa, sul divano, immobili a scrivere sui social o a guardar fuori dalla finestra o dentro lo schermo di un televisore o di un pc?
Non è un caso che ci siano due generazioni a confronto ne “La stanza degli abbracci”. E che la più forte sia quella capace di darsi tempo. di emozionarsi, di amare e amarsi.
Quel “Ti devi volere bene” pronunciato con una inconfondibile cadenza siciliana è la frase chiave del corto. Che altro non è se non uno specchio di noi stessi: paure, frustrazioni, angosce che ci vengono rimandate indietro, in realtà sono già dentro di noi.
E molti, tutti coloro i quali in questi mesi terribili si sono costruiti una corazza per proteggersi, non riescono a sopportarlo.
L’affermazione non ha di certo una valenza statistica, ma, a occhio, a leggere i commenti sui social, sono, in maniera leggermente superiore, le donne a reagir male a questi sentimenti. Non saprei spiegarne il motivo. L’unica spiegazione che riesco a darmi è che vorrebbero tener lontani la commozione e l’angoscia che il film scatena.
Timorose di quelle emozioni che ci rendono umani, come se la strada da seguire sia quella di non vedere, di distogliere lo sguardo, tapparsi le orecchie per non udire quella terribile domanda: “Ci rivedremo ancora?”.
Due donne sono le protagoniste dello spot: una più anziana, forse la madre, che esordisce con un “Non ci speravo più”, l’altra più giovane, forse una figlia o una nipote, risponde “Non so, ho molti dubbi” al “Cosa hai deciso? Hai riflettuto?”.
Sembra che parlino della possibilità di vaccinarsi, ma il dialogo potrebbe anche riguardare altro: i timori, le speranze, l’amore, i sentimenti, la memoria, il passaggio tra generazioni, le angustie, le gioie, la vecchiaia, la malattia, la vita, la morte.
Il tempo che fugge, insomma.
Ma che, probabilmente non è mai davvero perduto.
Sempre che riusciamo a restare umani.