Quattro punti di vista diversi per raccontare la pandemia da giovani che l’emergenza ha proiettato al fronte in questa guerra contro il coronavirus. Tutti hanno lavorato a Catania, nel reparto di Pneumologia covid dell’Ospedale Garibaldi Centro.
Sono due medici, un’infermiera e un operatore socio-sanitario. E questo è quel che ci hanno raccontato, rispondendo sempre a un’ultima domanda su cosa ci lascerà l’esperienza di questa pandemia.
“Recuperare il rapporto con il paziente, perduto in certi momenti di frenesia”
Flavia Licandro è una giovane infermiera laureatasi nel novembre del 2019 nell’Università di Ferrara. Tornata a Catania, con la speranza di poter lavorare nella sua città, ha visto concretizzarsi quest’obiettivo con l’esplosione dell’emergenza.
Ci racconta che, inizialmente, non ha riflettuto sul pericolo, perché era una situazione inesplorata. “Ho solo pensato che quella fosse l’occasione per iniziare”.
L’esperienza ha abbracciato le due ondate.
“Durante la prima, quella di marzo, ci aspettavamo una situazione simile a quella del Nord, invece è stata gestibile, nonostante le difficoltà di dover indossare i dispositivi individuali di protezione, l’incertezza del momento e ciò che sentivamo dai media”.
“Altra cosa è stato l’autunno. In
novembre, in piena seconda ondata, ci siamo ritrovati con poco personale e
tutti i posti letto occupati. Alla fine del turno, per via della frenesia,
della rapidità necessaria in certi momenti quasi non ricordavo nulla, ed ero
consapevole di non aver potuto curare l’aspetto umano nell’approccio con il
paziente. Al momento il numero dei ricoveri è diminuito, ed è possibile tornare
anche a scambiare qualche parola con gli ammalati”.
– Cosa lascerà la pandemia al servizio sanitario?
“Forse la necessità di recuperare con il paziente un rapporto più umano, aspetto che forse in certi casi è stato relegato in secondo piano”.
“Lavorare fin da ora ad un’organizzazione più rapida, in caso di future emergenze”.
Fabiola Cassaro si è laureata in medicina e chirurgia nel luglio del 2020 con laurea abilitante.
“Per molti quella del covid è stata la prima esperienza lavorativa. Io come altri colleghi abbiamo preso servizio nel pieno della seconda ondata, quando c’erano tutti i posti letto occupati da malati più o meno gravi. Fin da subito ci siamo chiesti se fossimo in grado di sostenere una simile prima esperienza. Non per tutti è stata una scelta facile. Chi ha scelto di proseguire è stato sostenuto da tutti gli strumenti che sono stati messi a nostra disposizione per integrarci, formarci e portare avanti questo impegnativo ruolo”.
Un ruolo reso ancor più complicato dalla necessità di indossare i dispositivi di protezione, attraverso i quali “solo per mezzo degli occhi possiamo trasmettere al paziente serenità, fondamentale in un momento di fragilità e di lontananza dai propri cari che sentono solo al telefono”.
“Addirittura, ai pazienti più anziani i nipotini hanno fatto recapitare disegni e messaggi scritti che abbiamo letto agli ammalati con grande piacere. Il rammarico è che ci siano alcuni, i negazionisti, che sostengono come l’emergenza covid sia tutta una montatura…”.
– Cosa lascerà la pandemia al servizio sanitario?
“Probabilmente l’esigenza di un tipo d’organizzazione che sappia far fronte tempestivamente, in futuro, a emergenze di tale portata”.
“Testare periodicamente i piani di maxi-emergenza”
Francesco Gioia, medico ennese, è stato tra i primi laureati a distanza, a marzo 2020.
Da studente, di certo, avrà immaginato tante volte di dover affrontare situazioni d’emergenza, ma non avrebbe mai pensato a un “inizio” nel bel mezzo di una pandemia.
“In realtà la voglia di mettere subito a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze non è mai venuta meno, pur consapevole delle difficoltà e questo perché emergenza e pronto soccorso sono da sempre gli ambiti di mio interesse”.
Fin dal primo giorno l’imperativo è stato: piena responsabilità.
“È stato come fare un bagno nell’acqua
gelida: la frenesia dell’urgenza, i dispositivi di protezione individuali
rendevano difficile il rapporto medico-paziente, invece terapia e umanità si devono
intrecciare. Ma non credo che ci fosse un modo migliore per iniziare”.
“Pian piano, in tutto questo, si è trovato il modo di comunicare con il
paziente, anche solo soffermandosi un attimo, aiutandolo a mangiare un boccone
e magari scambiando un sorriso”.
– Cosa lascerà la pandemia al servizio sanitario?
“La consapevolezza che potremo ritrovarci in una situazione simile e non dovrà coglierci di sorpresa. Praticando i piani di maxi-emergenza senza lasciarli seppelliti sotto una pila di carte”.
“Puntare su nuove assunzioni per un’adeguata assistenza post pandemia”.
“Per me è stata la prima esperienza, ho fatto la domanda e mi sono ritrovato nel bel mezzo di una situazione ancora a tutti sconosciuta. Ricordo ancora il giorno in cui sono arrivati i primi pazienti, eravamo spiazzati”.
Così inizia il suo racconto Fabrizio Falcone, operatore socio-sanitario, originario di Messina. Sottolinea non solo come fosse altra cosa vedere l’evolversi della situazione dalla tv e stare poi sul campo, ma fa una netta distinzione tra la prima e la seconda ondata, a Catania.
“La prima è stata fronteggiata senza grosse ansie, in autunno è stato tutto diverso, in special modo nel mese di novembre, quando non vi era un posto libero in reparto”.
Anche per Falcone “la cosa più dolorosa era vedere i pazienti che non potevano avere il conforto dei propri cari, e di ciò veder soffrire di più gli anziani, che a volte cercavano un contatto anche solo stringendoti la mano”.
Un gesto che esprimeva tutta la fragilità del momento, in cui dove l’unico riferimento umano, per gli ammalati, era il personale sanitario.
– Cosa lascerà la pandemia al servizio sanitario?
“Mi auguro l’assunzione di medici e infermieri. Un più vasto organico, per offrire ai pazienti, anche quando la pandemia finirà, adeguata assistenza”.
E questa prima esperienza qualcosa a lui, che ora svolge il suo lavoro al Policlinico di Messina, l’ha già lasciata: “il ricordo di una squadra affiatata”.
Francesca Fisichella