Il cambiamento climatico indotto dall’uomo sta distruggendo il creato e rendendo tutti i paesi del mondo più poveri. Le immissioni di gas serra hanno comportato l’innalzamento della temperatura globale con la conseguenza di stringere il pianeta nella morsa della siccità e della desertificazione. Un fenomeno complessivo che non risparmia neanche il mare, infatti se in terra sono gli alberi a seccare, negli oceani sono i coralli ad inaridire. In questo quadro veramente sconfortante la vita di milioni di uomini è sempre più a rischio. L’uomo è stato un pessimo custode del creato, che gli è stato affidato affinché se ne servisse coscienziosamente. La tradizione ebraica ed il racconto biblico pongono l’uomo in costante rapporto con il suo habitat naturale, che ne condiziona l’esistenza.
Notissima è la storia di Giuseppe venduto dai fratelli, che si colloca nella fase iniziale degli accadimenti da cui ha avuto origine lo stato ebraico e narrata in Genesi (37-47). Un giovane sognatore ed al tempo stesso interprete di sogni, che da schiavo riesce a diventare il più importante dignitario del faraone, chiamato al suo cospetto in un momento in cui il sovrano d’Egitto era ossessionato dal sogno premonitore delle sette vacche grasse, seguite da sette vacche magre, a cui gli indovini ed i saggi di corte non avevano saputo dare una esauriente interpretazione. Giuseppe suggerisce, di affrontare i sette anni di siccità e di miseria, con un prudente utilizzo del raccolto di precedenti anni di abbondanza. Ancora la siccità, dopo alcuni anni, sarà la causa del fortuito incontro di Giuseppe con i suoi fratelli, che a motivo della penuria del raccolto erano stati costretti a recarsi, dalla loro terra di Canaan, in Egitto per rifornirsi di cereali.
L’esigenza di sfuggire alla fame darà l’occasione alla famiglia di ricongiungersi ed al fortunato protagonista di tornare ad abbracciare l’anziano padre Giacobbe. Molte delle festività della tradizione ebraica sono legate al ciclo agricolo della terra, di cui la Torah prescrive se ne faccia un utilizzo inclusivo nei confronti del prossimo (Levitico, 19, 9-.10) e rispettoso della natura. Infatti, è previsto che ogni sette anni, vi sia un anno sabatico, in cui la terra non deve essere lavorata ( Levitico 25, 1-7) affinché possa, riposando, rigenerarsi.
Nella conferenza “Etica Ambientale Ebraica” tenutasi in occasione dell’Expo di Milano 2015, si è fatto riferimento a questo precetto osservando che un uso massiccio di fertilizzanti risulta alla fine nocivo per la terra che diviene via via sempre più dura, con scarso drenaggio e bassa produttività, al contrario, quando il campo viene lasciato senza coltivazione per un anno, si rivitalizza. Quanto detto evidenzia come il rispetto per la natura si ponga al centro dell’etica ebraica.
Come spesso accade nell’ebraismo questi precetti apparentemente solo di tipo naturalistico vengano poi trasfusi in quanto di più sublime la religione possa esprimere. Infatti la più importante tra le preghiere ebraiche lo Shemà, in cui si afferma il principio cardine della religione ebraica, dell’unicità di Dio, contiene la promessa che a fronte della fede, dell’amore e della totale devozione del popolo d’Israele all’unico Dio, a pari dignità del conseguimento della santità, anche il dono della pioggia, espresso con queste parole: “…vi darò rugiada per le vostre terre, pioggia primaverile ed estiva, così raccoglierete le vostre granaglie, il vostro vino ed il vostro olio, e darò erba per il tuo bestiame, e mangerete e sarete soddisfatti…”
Mettendo in luce un Creatore sensibile, alle esigenze della vita, di ogni giorno dell’uomo la cui soddisfazione assurge a condizione per una esistenza libera, dignitosa e santa. L’ebraismo, così antico ed immutato, continua anche nelle contingenze più gravi a mostrare la assoluta validità dei principi che da sempre lo regolano.