Editoriale

Cuneo fiscale e pensioni gratuite

Il cuneo fiscale è la differenza tra il costo aziendale di un dipendente e quanto egli percepisce netto in busta paga. Lo stipendio mensile va addizionato dei ratei di tredicesime e, ove vi sono, di quattordicesima e quindicesima, nonché della sedicesima che si accantona andando a formare il trattamento di fine rapporto (Tfr).
La differenza tra il lordo e il netto viene denominato cuneo fiscale ed è formato da due fattori: quello fiscale e l’altro contributivo. Le imposte trattenute e versate nelle casse dello Stato che fanno parte della fiscalità generale servono per pagare le spese che lo stesso Stato sostiene per i servizi pubblici di vario genere.
I contributi trattenuti e versati all’Inps o ad altri istituti previdenziali, nonché i contributi contro infortuni versati all’Inail, fanno parte delle guarantigie nei confronti degli stessi lavoratori. Tali contributi vengono utilizzati per pagare gli assegni pensionistici.
E qui casca l’asino, vi spieghiamo il perché.
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L’Inps eroga oltre 300 miliardi di assegni pensionistici, ma ne incassa una settantina di meno, che viene rifusa dalla fiscalità generale, vale a dire, dalle uscite del bilancio annuale.
Dunque, le entrate per contributi sul lavoro attivo non sono sufficienti a pagare gli assegni pensionistici. Si tratta di uno squilibrio strutturale che si è via via formato per una serie di cause di natura clientelare, salvo una.
Di che si tratta? Di quegli assegni minimi che vengono erogati a chi non ha mai accantonato contributi e che si trova in un vero stato di estremo bisogno o di precarie condizioni di salute. Questi assegni pensionistici, che costituiscono una parte assai minore dei 300 miliardi prima indicati, sono assolutamente indispensabili per lenire le gravi sofferenze dei bisognosi cui prima si accennava.
La cosa finisce qui perché quasi tutti i governi dal Dopoguerra in poi si sono inventati leggi e leggine per erogare pensioni fortemente superiori ai contributi versati.
Ricordiamo la leggina per gli insegnanti, quando andavano in pensione con 16 anni, sei mesi e un giorno di lavoro, godendo poi del loro stato per trenta o addirittura quarant’anni.
Poi, dall’1 gennaio 1996, i governi – che venivano dalla stangata derivata dal fallimento dell’Italia del 1992, quando fu prelevato lo 0,6% dai conti bancari dei cittidini – rinsavì e approvò la norma secondo la quale, a partire da quella data, gli assegni pensionistici sarebbero stati proporzionati ai contributi versati. Salvo i diritti acquisiti da quei lavoratori per tutti gli anni precedenti a quella data. Per i quali, dunque, la pensione è calcolata col sistema misto retributivo e contributivo.
E da lì cominciò lo sbilancio previdenziale tra entrate per contributi e uscite per assegni pensionistici. Ma non finisce qui perché tutti i governi successivi, per acquisire il favore di tanti cittadini, li hanno gratificati via via di una serie di norme che hanno facilitato fortemente il loro pensionamento.
Vi è una legge generale che prevede la possibilità di andare in pensione per vecchiaia, a prescindere dai contributi versati, a 67 anni.
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Ma chi va in pensione a 67 anni? Solo degli sfortunati che non hanno santi in paradiso. Infatti, ormai, la gran parte dei pensionati ci va per una serie di norme approvate ad hoc dai diversi governi, appunto per acquisirne il consenso e, sperano, anche il voto. Cosicché vi è stata quota 100 (38 anni di contributi e 62 di età), poi diventata quota 102. Ora quota 103.
Non basta: vi è una norma che consente alle donne (Opzione Donna) di andare in pensione a 60 anni di età e 35 di contributi.
Vi è poi una norma per chi esercita lavori usuranti. L’elenco è lungo e ve lo risparmiamo. Da quanto precede si evince che la gestione della previdenza non è per nulla equa e non rispetta l’articolo 3 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Non si rispetta neanche il principio del buon andamento della Pubblica amministrazione (art. 97, criterio di economicità).
Insomma, un altro clamoroso capitolo della malagestione delle risorse pubbliche.