cultura e società

Dal verismo alla fascinazione per lo spiritismo, le molteplici “inquadrature” di Luigi Capuana

I trenta-quarantenni che si affannano a non perdere una parola delle acchiappatine tra rapper per paura di sentirsi definire boomer non ricordano di essere stati tra le ultime generazioni di privilegiati a pasteggiare nomi d’intellettuali sapendo che, sì, di mestiere forse erano intellettuali: esistono ancora istituti in cui si studia, o si menziona, Luigi Capuana? Così come anticipato qualche mese fa con Mario Rapisardi, Luigi Capuana è uno di quei nomi che senti associare a vie e locali; se però ti venisse chiesto cosa ha scritto o, meglio ancora, perché il suo nome puoi masticarlo, con difficoltà riusciresti a dire qualcosa di sensato.

Questo perché abbiamo chiuso le antologie prediligendo i telefoni con la fotocamera? No, perché sono esistiti periodi, se non secoli, in cui si continuava a studiare pur consci del progresso tecnologico – come, tra l’altro, hanno fatto lui e migliaia di altre persone. Al di là di un’incauta risposta, di difficile reperimento, forse varrebbe la pena interrogarsi sul perché, per qualche decennio, a gente come Luigi Capuana è stato dedicato qualcosa. Soprattutto per i catanesi che con quel cognome ci hanno avuto spesso a che fare.

Più verista del vero, emergerebbe a una prima consultazione del suo curriculum. Luigi Capuana è stato un uomo alla ricerca di una tensione infinita, da ritrovare non tanto nei barocchismi quanto nella linearità. Oggi, che tendiamo a guardarci l’ombelico e, coi nostri scritti, a caricare di virtuosismi pure i ricordi delle scuole medie, tutto questo appare come obsoleto e polveroso. Per Capuana, nato a Mineo nel maggio 1839, la regolarità fotografica delle cose rappresenta uno Streben incessante, un mandato esplorativo con cui osservare la realtà per trarne scrittura: cattura il dettaglio, perché dentro ci sei tu. Eppure Capuana è stato anche molto altro – un appassionato di fotografie, per l’appunto, e uno studioso infaticabile del reale.

Di ottima famiglia o, come direbbero oggi in volgare privilegiato, Capuana in vita ha (ri)cercato in già battute l’equilibrio tra un’adesione fortissima al tangibile e, contestualmente, ha coltivato un interesse sincero verso il soprannaturale. Lo dimostra, nel 1884, il saggio “Spiritismo?”, con un punto interrogativo a corroborarne la dimensione metafisica e non immediatamente percettibile. “È innegabile: alcuni fatti paiono oltrepassare di gran lunga i limiti dell’umana natura”. Non è spirito di contraddizione: è stata capacità di accendere una lanterna sulle proprie certezze, per elasticizzarle, più che per metterle in discussione.

Nel saggio, oltre a evocare sedute di magnetizzazione praticate in giovane età su una diciottenne in apparenza posseduta dallo spirito dell’adorato Ugo Foscolo, Capuana scrive: “Le fantasie molto vivaci vedono, con essi, spalancarsi dinanzi gl’infiniti spazi del meraviglioso. Le menti fredde e osservatrici, massime se libere da preconcetti, indagano, studiano, tentano di darsi una ragionevole spiegazione”. Quando scrive queste parole, tentando di trovare una prima sintesi a quella che all’epoca era la contrapposizione tra reale e metafisico, generando dibattiti e polemiche tra intellettuali, scienziati e persone comuni, Capuana è già uno scrittore di un certo successo.

Stupisce perché, fino a quel momento, l’obiettivo della sua indagine è quello di restituire una letteratura scientificamente provata, basata sullo studio del dettaglio. Nel 1884, quando consegna un saggio che diventerà un piccolo caso editoriale, Capuana è uno dei padri del verismo; uno scrittore che si è imbevuto delle parole dei naturalisti, Zola in primis, ma anche de Goncourt e Balzac. Proprio a Zola, nel 1879, dedica quello che è forse il suo romanzo più conosciuto, “Giacinta”: dalla patologia e dagli abusi sessuali del passato si origina il personaggio della protagonista, e viceversa, in un’opera costata grande fatica al suo autore. Un romanzo che è un documento dettagliato e ispirato a una storia vera: la passione d’amore di Giacinta, angosciante più che dionisiaca, la porta al suicidio, destinazione unica di un’esistenza amara che è dichiarata erede della Bovary di Flaubert. Ci trovi la medicina e il sentimento; “Giacinta”, che negli anni sarebbe stato adattato anche per il teatro e la televisione, è stato un titolo di rottura. Opera verista, sì, ma al di là delle etichette un romanzo difficile nella struttura, dalla prosa ora scientifica, ora sapientemente controllata dai pensieri del suo scrittore. Emilio Treves, nell’anno dell’uscita, sulle pagine de “L’illustrazione italiana” nel giugno 1879 lo ha definito “libro immondo” e tanto basta per comprendere quanto la sua pubblicazione possa aver creato scandalo.

La vita di Capuana è stata all’insegna dell’osservazione dei mercati letterari e, al contempo, di una ricerca che lo rendesse soddisfatto del proprio operato: lo dimostra una certa versatilità, che lo colloca ben oltre la semplice etichetta di “verista”, davvero troppo limitante nell’arginare la sua crescita stilistica. Capuana è stato, in fasi diverse, gotico, fantascientifico, storico e politico – il primo poemetto ufficiale in tre canti, “Garibaldi” (1868), è profondamente connesso alla fedeltà nei riguardi dell’unificazione. Come scrive alla fine degli anni Quaranta il critico letterario Gaetano Trombatore, “mentre il verismo fu per il Verga un punto d’arrivo, l’approdo definitivo di tutto se stesso, per il Capuana esso fu invece un punto d’avvìo verso altri assaggi e scoperte”.

Nelle molteplici inquadrature della sua avventura letteraria ci sono state Roma, dove ha diretto il Fanfulla della Domenica, e prima ancora Milano e Firenze, dove conosce personaggi come l’Aleardi e il Capponi, e dove continua a mirare ciò che la letteratura, soprattutto quella degli altri, sapeva produrre – fu apprezzato critico per tutta la vita, firmando per La Nazione, per il Corriere della Sera e anche per sé stesso, con saggi e studi su teatro e stili di scrittura.

C’è stata soprattutto, per Capuana, la Sicilia: Catania, dove nel 1902 prende la cattedra di lessicografia all’Università, e prima ancora la sua Mineo, di cui è stato sindaco per ben due volte. Tutto questo consumato in una vita che l’ha visto approdare e distaccarsi dall’isola, come attirato e poi respinto da una terra che è stata fonte di ispirazione ora scientifica, ora misterica.

Novelle e fiabe di ispirazione sicula, sia magica, sia borghese che da bozzetto realista, hanno affiancato la pubblicazione di altri romanzi, come “Profumo” del 1891, definito “puro come un’ostia”, e soprattutto “Il marchese di Roccaverdina” (1901), in cui dopo vent’anni di labor limae il verismo e la cruda ambientazione sicula si mescolano all’ormai sdoganata fascinazione verso lo spiritismo. Senza dimenticare uno dei primi pilastri della sua scrittura, ovvero la delineazione psicologica dei personaggi, evidentissima in “Profili di donne”, raccolta di novelle uscita nel 1877.

Vicino a Pirandello e De Roberto, Capuana sa apprezzare e osservare con spirito critico il lavoro degli altri: celebre è il suo elogio acceso nei confronti de “I Malavoglia” di Giovanni Verga, che in un carteggio con quest’ultimo definì l’opera più completa mai pubblicata in Italia dai tempi de “I promessi sposi”, per poi farne oggetto di un saggio critico che ha fatto la fortuna del romanzo di Verga e del concetto di impersonalità – sebbene, a onor del vero e come già ripetuto, Capuana sarebbe andato ben oltre il verismo pur essendone stato uno dei maggiori teorici.

E celebri sono stati, per un certo periodo, alcuni passaggi della sua vita privata: come i figli illegittimi avuti da una domestica di casa e mai riconosciuti, o il matrimonio in tarda età con la giornalista e scrittrice Adelaide Bernardini, molto più giovane di lui e sposata nel 1908, sette anni prima che lo scrittore morisse, con Giovanni Verga come testimone. La Bernardini, un’intellettuale di carattere, avrebbe poi curato le opere del marito alla sua scomparsa, senza sottrarsi a polemiche di vario tipo con personaggi come Luigi Pirandello, che la criticò per aver messo all’asta il manoscritto originale de “I Malavoglia”, e che lei a sua volta accusò di plagio (di una novella del defunto Capuana). Storie gustose e di pruderie ricolme; peccato però che non ci ricordiamo i titoli di quello che Capuana consegnava agli editori, figuriamoci gli affari suoi.

È stato tanti scrittori diversi, Capuana, senza mai convincersi che la realtà, per quanto esistente, fosse composta di sola materia o di sole verità. Un intellettuale che si è messo in discussione, che è saputo crescere (per parlare come si usa nei reality) e che non ha smesso mai di interrogarsi sul senso del proprio lavoro, nella forma come nella sostanza. Oggi, che crediamo di avere risposte su ogni cosa e ci basta poco per sentirci protagonisti di palinsesti che esistono solo nelle nostre menti, questa modesta virtù ce la siamo bella che dimenticata.