Editoriale

Debito gravoso ma nessun rimedio

Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nel meeting di Rimini, ha ammonito il popolo italiano facendo presente il rischio che sta correndo, in quanto i Governi precedenti e quello attuale continuano ad alimentare la spesa cattiva, cioè quella corrente, invece di spendere bene per gli investimenti.
Panetta ha comunicato un dato molto preoccupante, cioè che gli interessi per il debito pubblico – il macigno che si avvia ai tremila miliardi – quest’anno supereranno la spesa per l’istruzione e questo è un fatto inaccettabile.

Va da sé che questo debito non è solo responsabilità del Governo in carica, ma anche di tutti quelli che lo hanno preceduto. Ricordiamo che nel 1992 il Governo Amato dovette prelevare lo 0,6 per cento dai conti bancari degli italiani/e per salvare il Paese dalla catastrofe finanziaria. Ricordiamo anche che nel 2011 Berlusconi fu cacciato perché il suo Governo aveva fatto raggiungere il record di spread a 574 punti.

Ma poi tutti gli altri Governi hanno continuato a largheggiare nella spesa cattiva, cioè quella corrente, perché è il modo più facile per accontentare tutti e quindi acquisire consenso elettorale ed i conseguenti voti.

Panetta, senza farne cenno diretto, ha detto che è importante aumentare la concorrenza, ma i Governi precedenti all’attuale nicchiano sulla messa al bando dei siti balneari, sulla messa in concorrenza degli spazi pubblici per i mercatini e sul raddoppio dell’emissione delle concessioni per i taxi.
Panetta ha ancora ammonito il Governo affinché aumenti la produttività della spesa. Tale produttività, appunto, cresce se aumenta la spesa per investimenti e se si taglia quella corrente.

Ha poi toccato il tasto delle pensioni, per le quali lo Stato spende circa 350 miliardi l’anno in quanto proprio su questo versante i Governi successivi a Mario Monti, quando fece approvare la legge Fornero, hanno continuato a largheggiare con le quote 100, 101, 102 e via seguendo.
Vi è stato uno studio del tutto teorico secondo il quale se si riconteggiassero le pensioni in atto erogate, tutte col metodo contributivo e non retributivo o misto, lo Stato risparmierebbe dai quaranta ai cinquanta miliardi.

Non sappiamo se gli ammonimenti del governatore Panetta saranno ascoltati, ma confidiamo nella saggezza dell’attuale ministro dell’Economia e finanza, Giancarlo Giorgetti – che sappiamo essere persona prudente e competente -, perché tutto quanto premesso trovi opportuna sistemazione in una legge di bilancio 2025, che dovrà spingere molto di più sugli investimenti, ma anche tagliare parecchio sulla spesa corrente.

Ed è proprio qui che casca l’asino, perché tagliare la spesa corrente significa scontentare tutti i privilegiati che continuano a percepire indebitamente contributi di ogni genere e tipo, inadeguati e impropri.

Ma tutti questi votano e allora l’attuale maggioranza dovrà mettersi d’accordo per conciliare l’esigenza di tagliare la spesa corrente cattiva scontentando i votanti, oppure facendo la differenza fra chi vuol spendere e chi vuole investire.

È vero, dice Panetta, che aumentando il Pil aumenta la sostenibilità dell’attuale debito, ma questo fa migliorare il coefficiente, non il debito pubblico, che continua ad aumentare di trenta/quaranta miliardi da un anno all’altro.

Il rimedio di fare aumentare il Pil non deve però far venir meno l’obbiettivo di ridurre il debito in valore assoluto, ovvero di evitare che esso aumenti da un anno all’altro mantenendolo almeno stabile. Per far ciò è necessario, lo ripetiamo in modo nauseante, tagliare la spesa corrente.

È comunque del tutto evidente che se le ammonizioni di Panetta restassero lettera morta, anche quest’anno il debito pubblico aumenterà dell’importo prima indicato e con esso gli interessi, che viaggiano – per fortuna non speditamente – verso i cento miliardi l’anno, anche se in atto oscillano intorno agli ottanta miliardi.

Il tutto riguarda la figura sostanziale di chi ci governa, cioé se tale figura è uno statista o, come faceva dire il mai dimenticato Leonardo Sciascia a don Mariano Arena, ne Il Giorno della Civetta: “Un quaquaraquà”.