”Duecento feriti nelle prime due ore di sabato”, dei quali ”il 25 per cento non è sopravvissuto”, e ”oltre 550 feriti trattati in totale in pronto soccorso”. ”Dieci sale operatorie che funzionano 24 ore su 24”, ma che non riescono a rispondere a una emergenza ”mai vista”, perché si contano ”più di cento morti” nel solo ospedale di Barzilai ad Ashkelon, 17 chilometri dalla Striscia di Gaza. Ospedale che, nel pomeriggio, è stato colpito dai razzi lanciati da Hamas. Ron Lobel, direttore dei Servizi di emergenza del Barzilai Medical Center, era in ospedale al momento del raid di questo pomeriggio e racconta all’Adnkronos che ”in 43 anni di lavoro in ospedale non avevo mai visto una cosa del genere”. Eppure l’incarico di Lobel, 73 anni, è proprio quello di preparare l’ospedale a situazioni di emergenza, a disastri, all’arrivo di feriti in massa.
”In Israele quando arrivano 50-60 feriti in ospedale in una volta sola si parla di un evento importante. Sabato ne sono arrivati 200 in due ore, alcuni dei quali in condizioni gravissime”, racconta. Ma non è ancora finita. ”Ci aspettiamo altri attacchi e l’arrivo di altri feriti, per cui la maggioranza di quelli che siamo riusciti a stabilizzare li abbiamo trasferiti in ospedali nel centro di Israele in modo da liberare letti”, spiega. ”Ci stiamo preparando a una nuova ondata di feriti, arriveranno senz’altro”, afferma. ”Venti minuti fa ne sono arrivati quattro, due dei quali non hanno nessuna chance di vivere, la loro condizione è molto grave”, aggiunge.
L’attacco di oggi contro il Barzilai Medical Center è il secondo, dall’inizio dell’aggressione di Hamas. ”Qualche giorno fa un passaggio che collegava il vecchio ospedale a quello nuovo è stato completamente distrutto – dichiara – Due ore fa un razzo ha colpito una delle nostre cliniche con due medici dentro. Sono rimasti feriti, ma siamo riusciti a salvarli”.
Lobel ha raggiunto il suo ospedale appena ha potuto, dopo essere scampato lui stesso al feroce attacco di Hamas. Il suo villaggio, Netiv Hasara, è stato uno dei primi a essere attaccati. ”Vivo in una piccola comunità rurale vicino al confine con la Striscia di Gaza. La mia casa dista 300 metri dal confine – racconta – Sabato mattina, quando ci siamo svegliati, abbiamo scoperto che il villaggio era stato preso da Hamas”. I miliziani, ricorda, ”erano attorno alla casa, erano dappertutto. Passavano da una casa all’altra, hanno ammazzato donne, uomini, bambini, vecchi”. Lobel è rimasto con la sua famiglia ”per 13 ore chiusi nella nostra casa pregando che non entrassero”. E ”solo per caso non sono entrati e siamo vivi. Hanno ucciso tanti miei vicini, miei amici, i loro figli, i loro genitori”.
Ed è ”dopo 13 ore che siamo stati liberati dalle Idf”, le Forze di difesa israeliane che hanno raggiunto l’insediamento. A quel punto ”sono andato in ospedale” e da quel momento è rimasto lì. Per aiutare i feriti, per ”salvare più persone possibile” e perché ”non so dove tornare, il mio villaggio non esiste più, la mia casa non esiste più. E’ stato tutto distrutto e lì non c’è più nessuno. Ci sono solo i carri armati”.
Immagine d’archivio