Figlio di un calzolaio e di una sarta, Giuseppe Puglisi era nato nella borgata palermitana di Brancaccio dove il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, la mafia per mano di Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, lo uccise a sangue freddo.
Il «Quotidiano di Sicilia» ha deciso, a ventotto anni dal suo omicidio, di ricordarlo attraverso le parole di Rosaria Cascio, sua allieva e oggi insegnante, che ha implementato i sui insegnamenti trasformandoli in pratica di vita e metodo di insegnamento.
Quando hai conosciuto padre Puglisi?
«Il mio incontro con lui è stato fortuito, come molte delle cose che capitano per caso, come ritrovarsi ad avere un insegnante di religione che si chiamava padre Pino Puglisi. Proprio da questo incontro è nata un’esperienza che si è protratta per tutta la mia vita e non tanto perché lui sia stato il mio insegnante, ma perché ha avuto la capacità di propormi un possibile progetto di vita che è riuscito ad attirare e incuriosire una ragazza di appena quattordici anni. Da lì è partita la mia esperienza, che ha iniziato a concretizzarsi sin dall’anno successivo con i gruppi giovanili, i campi estivi e della creazione di un gruppo di ragazzi che ha intrapreso proprio con padre Puglisi un percorso di crescita sia umana sia spirituale. Spesso lo definisco un “pifferaio magico”».
Nasce da questo la tua scelta di dedicarti all’insegnamento?
«In fondo no. Nella mia vita non ho scelto il “mestiere” dell’insegnante ma ho sempre scelto di stare dalla parte dell’educazione, ossia del lavoro educativo, e di testimonianza dei valori in cui credevo attraverso un percorso di volontariato ma anche un percorso politico che avevano in comune la scelta di occuparsi della mia città e, soprattutto, che stesse dalla parte degli ultimi, sempre. Essendo laureata in filosofia partecipai a un concorso bandito dal Ministero in un momento della mia vita in cui mi occupavo di progettazione di servizi sociali per i comuni e di servizi formativi per le agenzie educative. Quando ho iniziato a insegnare, mi sono ritrovata in un ambiente, sia per la mia esperienza personale da utente ma anche per il mio percorso, che conoscevo bene e da sempre. Ma forse hai ragione tu. La scelta di insegnare in un certo modo è maturata e derivata da quanto padre Puglisi mi ha trasmesso. Oggi insegno al “Regina Margherita”, un istituto superiore di Palermo che è un liceo delle scienze umane insegnando italiano e storia».
Cosa ha voluto dire implementare gli insegnamenti di padre Puglisi e renderli pratica nella tua professione?
«Prima di tutto capire, ossia partire dalla conoscenza. Avevo dentro di me l’esperienza del metodo di padre Puglisi, avendolo vissuto sulla mia pelle e contemporaneamente avevo la mia formazione universitaria dovuta agli studi di pedagogia, filosofia e psicologia. Sono riuscita a unire la mia esperienza e le teorie fondanti di questa esperienza. È stato questo che mi ha svelato il vero “metodo Puglisi”. A quel punto è stato relativamente semplice implementare lo stile, quel metodo educativo di padre Puglisi tant’è che mi definisco un’insegnante “puglisiana”, non tanto perché io lavori come padre Puglisi ma perché quella sua metodologia oltre ad averla vissuta l’ho studiata sia attraverso lo studio teorico dei riferimenti cui spesso faceva cenno sia andando a leggere gli autori che spesso lui citava, capisaldi della psicologia umanistica. La mia esperienza personale, poi, mi ha permesso di saggiarne concretamente gli effetti e i risultati».
Qual è il tuo ultimo ricordo di padre Puglisi?
«L’ultima volta in cui l’ho visto è stato a seguito di un incontro casuale. Lui era già a Brancaccio mentre io stavo frequentando l’Università. Era forse il mese di maggio o giugno di quel 1993 e andavo regolarmente a studiare alla Biblioteca Regionale. Prendevo il caffè in via Vittorio Emanuele, in un bar quasi di fronte alla Biblioteca. Quello era il bar in cui lui prendeva regolarmente il caffè, insegnando a pochi passi. Aveva scelto, nonostante la parrocchia di Brancaccio lo impegnasse moltissimo, di continuare l’esperienza dell’insegnamento. Amava i ragazzi, il rapporto con loro e, forse proprio perché veniva da scuola, lo trovai molto sereno. Stare con i giovani era il suo modo naturale di vivere anche perché questo gli consentiva di affrontare e discutere con loro di problematiche specifiche che li interessavano direttamente».
Dov’eri il 15 settembre 1993?
«Ero a casa di un mio cugino. Mi telefonò mio fratello, che fa il giornalista, che seppe subito quello che era successo. Immediatamente, assieme ai miei genitori, andammo al Pronto Soccorso. Arrivammo prima del Cardinale Pappalardo. In quel momento c’erano ancora poche persone e le suore di Brancaccio, suor Carolina e le altre. Ricordo di non avere pianto. In me c’era una forte rabbia anche perché i motivi della morte di padre Puglisi diventano sempre più chiari con il passare del tempo. Sì, rabbia. Si era congelata la mia capacità di commuovermi, di emozionarmi. Pian piano arrivarono gli altri e, assieme a Paola Geraci, ci radunammo all’interno della cappella dell’ospedale. Pregammo ma, soprattutto, parlammo, ci raccontammo di lui».
Com’è stato “il giorno dopo”?
«In Curia ci fu una riunione. Bisognava decidere le modalità della cerimonia funebre. Fui “spinta” all’interno della stanza in cui c’erano moltissimi vescovi siciliani. L’atmosfera era molto gelida, come se nessuno fosse in grado di esprimere i propri sentimenti e di proporre qualcosa in maniera ragionata. Quando arrivò il Cardinale Pappalardo si tentò di organizzare la cerimonia ma parlò solo lui, che propose di celebrare la funzione religiosa in Cattedrale e indicò una serie di momenti solenni e di canti religiosi che sarebbero stati eseguiti. Da parte dei Vescovi c’era quasi rassegnazione e ciò gli bastò. La mia rabbia interiore prese il sopravvento e battei i pugni sul tavolo e dissi, con fermezza, che la Messa andava fatta a Brancaccio, nella sua parrocchia e non nella Cattedrale, in quella chiesa centro del suo operato, centro del suo amore per quel quartiere. Eliminammo anche i canti proposti e li sostituimmo con canti che sapevamo piacere a padre Puglisi. Quella Messa doveva essere fatta a Brancaccio sia perché in Cattedrale sarebbe diventata l’ennesima passerella per i potenti sia perché a quella Messa dovevano partecipare quelli che a Brancaccio ci vivevano e che avrebbero rischiato di non poter partecipare. Dissi: “Puglisi non è di questa Chiesa che l’ha lasciato solo. Puglisi è del suo popolo, dei suoi amici, della sua Brancaccio”. Il Cardinale Pappalardo mise la testa sopra al tavolo, si mise a piangere e disse: “Ha ragione. Lo abbiamo lasciato solo”. La cerimonia funebre per padre Puglisi si tenne a Brancaccio, perché lui avrebbe voluto così».
Roberto Greco