Tutte le feste ebraiche hanno sempre un profilo religioso, a cui spesso se ne accompagna uno civile, con intento formativo. Nel senso che ogni ricorrenza, in modo più o meno palese, ha nelle sue motivazioni un insegnamento rivolto a ciascuno di coloro che la osservano. A questa regola non sfugge la festa di Shavu’òt (Pentecoste), che quest’anno ha avuto inizio al tramonto di martedi 11 giugno e che si concluderà al calar del sole di oggi, giovedì 13.
È una festa espressamente prevista dalla Torah (Bibbia), che prescriveva (Levitico: 23; 15-16) che nel secondo giorno di Pesach (Pasqua) venisse portata al Tempio una misura (omer) d’orzo appena raccolto, e da quel momento, prelevandone un grano al giorno, venissero contati 50 giorni.
Attraverso questo computo si giungeva ad individuare il giorno della festa di Shavu’òt. Il periodo intermedio è chiamato, periodo del “conteggio dell’omer” e non è uno spazio di tempo vuoto e di mera attesa, bensì un periodo di preparazione. La ricorrenza coincideva con l’epoca lieta della mietitura, ma allo stesso tempo, i primi trenta giorni erano di riflessione e di contrizione, durante i quali non si celebravano matrimoni, non si organizzavano feste ed il pensiero era rivolto al ricordo degli eventi luttuosi che hanno, nella lunga storia del giudaismo, colpito il popolo di Israele.
I Maestri ci ricordano che gli ebrei, appena usciti dalla schiavitù d’Egitto, riacquistata la libertà, si sono preparati per saper vivere in libertà. Giacché se la libertà è la precondizione di una vita dignitosa, degna di essere vissuta, occorre prepararsi al non semplice e responsabile esercizio della stessa. Mosè, giunto alle pendici del monte Sinai, lasciò il popolo e da solo salì sulla vetta a ricevere le Tavole della Legge, la cui accettazione piena ed incondizionata, è il presupposto del legame diretto che ciascun ebreo ha con Dio.
Gli ebrei si erano riscattati dalla schiavitù del faraone, erano usciti dall’Egitto, avevano vagato per quaranta lunghi anni per il deserto, luogo di solitudine e dal forte valore simbolico, giacché era necessario che dimenticassero il loro vissuto servile e si disintossicassero dalle contaminazioni del paganesimo imperante nella terra delle piramidi ed in particolare dai raffinatissimi ed accattivanti riti che vi si praticavano, per poter accogliere in pieno il monoteismo.
Era necessario che le loro menti, che avevano conosciuto il variopinto panteon delle tante divinità pagane, si preparassero ad accogliere la Legge e l’idea di un solo Dio, di cui peraltro non è possibile scorgerne l’immagine, di cui non è neanche narrabile una descrizione, ma di cui si può fare soltanto la enumerazione delle sue virtù.
Impresa ardua ancor oggi per l’uomo dell’era post industriale ed informatica, si pensi come doveva esserlo per uomini vissuti oltre cinquemila anni orsono, che però vi riuscirono parlando di luce, senza ombra o fiamma che non cessa di ardere. Tra questi, taluni eletti che forse non sapevano parlare di Dio, riuscirono a parlare con Dio. Per gli ebrei, nella solennità della Festa, alla fine, prevale l’aspetto gioioso che viene vissuto con dolcezza e serenità, grati al Signore per il dono della Legge. La Festa Shav’uòt venne chiamata, da alcuni ebrei di lingua greca, Pentecoste, giacchè in greco antico, questo termine significa cinquanta giorni.