Il divario tra Nord e Sud d’Italia si riscontra, purtroppo, in numerosi contesti economici e sociali. Il mondo infrastrutturale è uno degli ambiti in cui, questa frattura tra le due aree della nazione, emerge con maggiore forza e drammaticità. Per affrontare questo importante e complesso tema, il Quotidiano di Sicilia si è voluto avvalere dell’illustre contributo del professore Rosario Faraci, ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Università di Catania.
A livello infrastrutturale il Sud – e la Sicilia in particolare – sembra ancora abbandonato al proprio destino. Qual è, secondo lei, il quadro della situazione?
“Non vedo nulla di nuovo all’orizzonte. Complice anche la recente crisi di governo nazionale, non si parlerà più del Ponte sullo Stretto che, immancabilmente però sarà uno dei cavalli di battaglia della propaganda elettorale. Per il Gruppo Ferrovie dello Stato la Sicilia non rientra nei piani di sviluppo, nonostante l’obbligo comunitario di dar corso alle opere di infrastrutturazione del corridoio Ten-T. Io stesso ho avuto modo di interagire recentemente coi vertici di Trenitalia e RFI, chiedendo spiegazioni sugli insopportabili ritardi che si registrano tuttora sull’uso della tratta ferroviaria Catania-Palermo. Ho ricevuto risposte insufficienti e molto interlocutorie riguardo sia ai lavori di ammodernamento che ai programmi di espansione della rete”.
Che genere di ripercussioni ha questo stato di cose sull’economia regionale?
“Le ripercussioni sono pesanti. Sono state completate recentemente le analisi sulla condizione di insularità della Sicilia ed è confermato che le imprese sopportano mediamente un costo aggiuntivo del 30% per i ritardi infrastrutturali. Si tratta di un costo improprio che ne riduce la competitività e le taglia fuori da un confronto equo e sostenibile con le altre imprese del Paese”.
Cosa servirebbe alla Sicilia per allinearsi agli standard del Nord ed europei?
“Innanzitutto ci vogliono classe politica e management pubblico lungimiranti, all’altezza dei compiti e più responsabili. Siamo ancora allo stadio della “aurea mediocritas” che indebolisce la Sicilia nella rappresentatività all’interno dei tavoli che contano. Fa specie inoltre che risorse precedentemente assegnate alla Sicilia sui fondi europei siano state riallocate sulle voci di spesa del Pnrr, diventando così sostitutive e non aggiuntive rispetto alla dotazione necessaria per fare il salto di qualità”.
Di recente il QdS ha inaugurato “L’Italia vista da Sud”, una campagna che vuole “ribaltare” il modo di vedere la Penisola. La nostra tesi è che, con un’Italia capovolta, le grandi infrastrutture non si sarebbero fermate dove sono oggi. Lei cosa ne pensa?
“Ribaltando la Penisola, avremmo avuto milanesi e lombardi anche in Sicilia? Con la loro capacità di fare lobby, di fare pressing sulla politica, di fare gioco di squadra, di far valere sempre le ragioni dell’economia e dell’impresa? Io penso che i ritardi siano soprattutto una questione di mentalità. I siciliani sono bravi a lamentarsi e piangersi addosso, ma fanno male i compiti per casa. Alla domanda del QdS sull’Italia vista dal Sud, rispondo con un’altra domanda. Se ci fosse stata una Sicilia posizionata al Nord, non pensate che da almeno dieci anni avremmo avuto un’unica società di gestione degli Aeroporti siciliani, la terza più grande del Paese, in grado di contraltare efficacemente il potere negoziale dei grandi vettori e, in particolare, di quelli come l’ex Alitalia che si sono dimostrati famelici nei confronti dei siciliani costretti a viaggiare per lavoro, studio e motivi di salute? Invece, no. Si preferisce frammentare poteri e competenze per moltiplicare gli spazi della politica”.
In che modo si può invertire la tendenza di un Sud vagone e di un Nord locomotiva, valorizzando il Mezzogiorno anche a livello economico?
“È un tema che sta molto cuore da convinto meridionalista ma attento europeista come il vostro direttore Carlo Alberto Tregua che ha speso la sua intera vita professionale e sociale per portare al centro del dibattito questi temi. Per invertire la rotta, non servono politiche di facciata. Serve investire decisamente in innovazione, perché è la sola leva in grado di generare discontinuità dal punto di vista economico, occupazionale e di indotto. Ma l’innovazione è innanzitutto un fatto culturale e presuppone un’apertura convinta al cambiamento. Mi scusi, ma se dopo trent’anni in politica vediamo ancora le stesse facce di notabili arroccati al potere e all’idea di comando su tutto e tutti, di che innovazione vogliamo parlare?”.