Con la talk dal titolo “Progettare l’imprevisto” a cura di Abadir e del Master in Design strategico dalla “Ford al fard” diretto da Vincenzo Castellana, la designer Elena Salmistraro apre a nuovi linguaggi d’elezione, mediante la messa in opera di inattese traiettorie semantiche che vivono della oramai conclamata erosione dei confini della progettualità tra le varie discipline, mettendo così in opera un approccio di metodo laterale, multidisciplinare e multiproteico che, si nutre essenzialmente della irrinunciabile possibilità di poter esprimere il proprio potenziale creativo, quale che possa essere l’ambito applicativo scelto, ogni qualvolta o, che esista o meno un incarico da parte della committenza da dover sviluppare.
Sì, perché Elena Salmistraro è designer ma, innanzitutto artista! Il suo esercizio creativo è inteso innanzitutto come questione irrinunciabile volta a poter produrre una rosa di possibilità espressive, in ogni direzione, in ogni contesto o ambito applicativo rintracciabile. Ma voglio dirlo subito, la mia escursione lungo l’opera della designer Elena Salmistraro non può che essere intimamente correlata all’indagine sulla natura del suo linguaggio. Peraltro, in totale assonanza con il mio fare creativo, devo dirlo e con grande orgoglio.
Si, perché la struttura del linguaggio, rispecchia la struttura stessa della realtà. Perché le parole, così come ogni altro elemento interpretativo, quale è quello segnico nel nostro caso, che possono muoversi mediante l’uso di un linguaggio, ci possono dire il mondo. E possono narrarlo proprio così come il mondo è. Ed il vasto patrimonio segnico messo in esercizio attivo e, creativo, dalla designer muove proprio dalla irrinunciabile questione di voler fortemente analizzare il linguaggio delle cose, di ogni cosa, allo scopo di poter comprendere come è fatto il mondo. Ed ella lo fa servendosi dell’esercizio di un potenziale espressivo che, nel suo caso, diviene ragione di vita, respiro fisiologico del suo portentoso e mirabolante modus vivendi. Ed in questo fare non può che scorgersi la individuazione entusiastica di nuove, numerose traiettorie di senso da poter attribuire, accogliere, sviluppare ed infine confliggere meravigliosamente con lo srotolarsi sonnacchioso delle nostre esistenze.
In ogni epoca, esiste è un problema di lettura delle traiettorie di sviluppo emerse dalla questione storica, dove ciò che non si comprende, almeno in un primo momento, è da interpretare. Ed è dunque attraverso la chiarezza dell’operazione del comprendere che possiamo dare vita ad una azione di trasformazione. La feroce assolutezza manifestata dai mercati, riduce gli individui ad una condizione di impotenza, dove svanisce, vaporizza, ogni forma di umanesimo, in favore della questione dominante del denaro.
La convinzione, innescata dall’insediamento coatto della razionalità tecnica nel nostro modus vivendi, ha introdotto questioni che ci impongono il mantenimento perpetuo di uno stile di vita che debba poter essere, ad ogni costo, efficiente, produttivo, utilitaristico, ottimizzante, nel conseguimento dei risultati, allontanandoci sempre più dall’esercizio di azioni inutili, ma estremamente gratificanti, portatrici di un godimento che è esso stesso enfasi, nella sua pienezza dell’esposizione del linguaggio. Al limite del superfluo. Ed è chiaro, che in questo percorso di ri-definizione del Reale, ci si arresti, qualche volta, nelle asciutte maglie della pura essenza formale, che è silohuette, cloisonne, rappresentazione degli elementi costituenti il nostro paesaggio umano attraverso il wireframe, quale traiettoria rassicurante capace di condurci in un porto sicuro, quello della produzione di proposte capaci di non farci cadere in appannate, o ridondanti, e consapevoli questioni retrograde, cariche di problematiche generatrici di sicure traiettorie di lucida obsolescenza.
Vi è poi la questione legata alla operazione di predazione effettuata da fondi finanziari apolidi che trovano campo base al di fuori dei nostri confini territoriali, quei confini che da millenni accolgono e danno vita al patrimonio più prezioso che il nostro paese possegga, ascritto tutto in quel capitale umano che del suo saper fare manuale e dell’esercizio sapiente di un preciso approccio di metodo rintracciabile in una moltitudine di pratiche e di processi che affondano in una inestinguibile tradizione millenaria, che ne ha saputo attualizzare i parametri d’ingaggio con ininterrotta costanza, ne ha fatto cifra espressiva carica di unicità e di malìa, al punto tale da conquistare il desiderio di ogni tipo di utenza ad ogni latitudine del pianeta.
Il rischio, non più paventato ma, reale e concreto, è che cessino all’interno di queste mirabolanti aziende che hanno fatto la storia del Made in Italy, le pratiche rintracciabili nei principi preziosi agganciati all’opera di sperimentazione e di ricerca, quali parametri inossidabili per la definizione del patrimonio fisionomico delle nostre eccelse produzioni. Potrebbe materializzarsi il fantasma di una creatività che pone in esercizio attivo questioni esclusivamente connesse ad una natura didascalica delle opere generate e date in ostensione dentro i nostri scenari di vita. Come peraltro accade già, da più di un trentennio, nel mondo della Moda (Dolce & Gabbana, docet!), a discapito della messa in opera di un universo singolare ed unico, che nella operazione critica che affonda le sue radici nei parametri d’esercizio del nostro presente, riesce a declinare la sua migliore traiettoria d’ingaggio e d’espressione.
Ma viviamo in un paese dove sopravvivono e, continueranno a sopravvivere ancora a lungo, sentimenti e legami forti, legami di natura parentale, amicale, professionale, e via dicendo, e saranno proprio tali parametri, d’immensa consistenza, a preservarci ancora a lungo dalle nefandezze generate dalle conseguenze prodotte da un mondo liquido, per dirla alla Baumann. E la nostra portentosa designer ne è una preziosa risorsa attiva in tal senso, essa muove con un approccio di metodo, messo in esercizio attivo in maniera quasi perpetua, che attiene alle pratiche ed ai processi propri del mondo dell’Arte, dove è l’intenzione a prevalere, alimentata da un fare, che possiede spesso parametri d’esercizio fanciulleschi, anziché muovere da una intuizione, che nel design è considerata questione suprema.
Ed è così che la Salmistraro intende prenderci per mano e buttarci dentro un vorticoso girotondo, fatto tutto di colori inaspettati, di narrazioni e di scenari talvolta persino cartooneschi. Tante volte ho scritto, negli ultimi due decenni, che la disciplina del design ha raggiunto ormai lo stesso potenziale espressivo dell’Arte, specie a partire dal salto compiuto dentro il nuovo millennio, e sono parecchi gli elementi posti in produzione e poi in ostensione, dentro i nostri scenari esistenziali, dagli attori della distribuzione dell’arredo di design, a dimostrarlo. Ed il mondo della distribuzione, com’è evidente in maniera piuttosto disarmante ha, ed avrà bisogno sempre più di nuovi dispositivi di ostensione e di sostegno alla narrazione da poter elargire all’utenza, quale missione essenziale ed insostituibile, da porre in essere per poter raccontare alla utenza tutta, quel viaggio ricco di elementi di preziosità che sta dietro all’opera del design. Quel viaggio dell’idea di progetto che viene delineata dai designer mediante il carattere che essi riescono ad infondere alle loro creazioni, la loro ‘mano’ ed il loro ‘segno’ che, divengono unico elemento iconico di grande rappresentatività.
Nel caso della nostra designer, spesso il suo tratto distintivo, la sua predilezione assoluta dell’esercizio spasmodico dell’arte del disegno, motore e generatore di una precisa matrice identitaria estremamente riconoscibile, la sua incisività caratteriale, è stato talvolta oggetto di aspre critiche da parte del sistema del design italiano, episodi che provengono da entità che pongono in esercizio un pensiero pericolosamente omogeneizzante che ha mostrato oramai, da più di un decennio, il suo respiro afasico.
Le critiche, spesso poste in essere dalle major italiane, quelle aziende che hanno fatto grande il Made in italy, che oggi però si mostrano blindate nei confronti dei giovani designer emergenti e di talento, fagocitate come sono da oculati e distanti fondi finanziari, non fanno altro che ri-editare, con grande accanimento terapeutico, degli elementi oramai divenuti da tempo musealizzati, dunque potremo dire parecchio distanti, lontani anni luce dalle preziose frequenze generatrici dei parametri d’esercizio del nostro presente.
Quella che pone in essere Elena Salmistraro mediante il suo lavoro, è certamente, a mio avviso, un’azione di erosione violenta nei confronti delle rigidità poste in esercizio da un panorama immenso, quale è quello posseduto dal sistema produttivo italiano del design, che non riesce ancora ad accogliere le sollecitazioni provenienti dalle avanguardie della nuova cultura del progetto, vecchie e nuove che siano. E lo fa tessendo un’opera che è parecchio simile a quella condotta dalla rivoluzione inglese degli anni ’70 del secolo scorso che, con il movimento Punk ha generato, quale conseguenza dell’onda d’urto prodotta nella direzione delle rigidità connesse ad un sistema editoriale ingessato, infagottato e pomposo, l’emersione di una costellazione vastissima di nuove, piccole entità attive profondamente rappresentative di quel mondo plurale di cui beneficiamo e che oggi continuiamo a vivere.
È di questo che abbiamo inteso dialogare in questo incontro con la nostra designer e con Gianluca Tornabene Mollura, ceo di Mohd, entità estremamente rappresentativa nel mondo della distribuzione dell’arredo di design italiano nel mondo, e di come, ogni qualvolta accada di poter accogliere tali ospiti nella nostra isola, e che questi riescano a trasmigrare con la loro opera, la loro conoscenza, preziosi parametri d’esercizio atti a poter declinare la cultura del progetto in parametri esemplari di un magnifico agire.