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Facciamo risuscitare i “cadaveri urbani”

La definizione “cadaveri urbani” non è mia, bensì del direttore del quotidiano “La Ragione”, Davide Giacalone, ma è talmente efficace che non posso fare a meno di condividerla e utilizzarla a mia volta.
Cosa sono i “cadaveri urbani”? Sono quelle decine di migliaia di edifici pubblici e privati, spesso vuoti, privi di qualsiasi rilevanza architettonica, storica o artistica, che ingombrano inutilmente le nostre città perché non vengono utilizzati da nessuno.
Nel 1997, al fine di favorirne la ristrutturazione, tentai di sbloccare la questione nell’unico modo realistico che si possa immaginare, vale a dire permettendo ai proprietari un riuso vantaggioso di questo genere di immobili.
Lo feci nell’ambito della tematica legata alla cooperative edilizie, consentendo, con un’apposita legge che permise a circa 25.000 famiglie siciliane di avere una casa, non solo la nuova edificazione in aree a ciò dedicate, ma anche riqualificando edifici esistenti, con un vantaggio di circa il 30% sulla volumetria preesistente, andando oltre quella prevista per gli alloggi di edilizia agevolata.

Oggi, se si varassero delle disposizioni a supporto di una simile possibilità, la questione assumerebbe ulteriori elementi di vantaggio: si potrebbe risparmiare suolo, si potrebbero ripopolare i centro storici, si potrebbe migliorarne la sicurezza antisismica e l’efficienza energetica, si potrebbero realizzare strutture moderne di edilizia residenziale pubblica, privata, studentesca, sociale o produttiva.
Per raggiungere un simile risultato, una volta tanto, non servirebbe un centesimo da parte dello Stato, ma solo poche norme, con le quali consentire di mettere a reddito immobili che oggi non solo non producono nulla, non solo costituiscono un costo e un rischio per chi ne detiene la proprietà, ma sono pure brutti e pericolosi.
Dato che ci sono la voglio dire tutta: un’operazione del genere dovrebbe essere preceduta da una disposizione, anche questa a costo zero, riguardante le Soprintendenze per i Beni Culturali che, una volta per tutte, invece di fare la parte del “signor no” a fasi alterne, o a seconda degli interessi ritenuti meritevoli di tutale, non sempre giustificata, dovrebbero scegliere, in via definitiva, quali debbano essere le zone o gli edifici da tutelare, quali no, stabilendo le condizioni che dovranno essere rispettate ai fini di poter procedere al riuso.

Senza apposite disposizioni come quelle brevemente accennate, il recupero dei centri storici, in Sicilia come altrove, continuerà a rappresentare soltanto un lodevole auspicio, se non una pallida, irrealizzabile utopia.
D’altra parte, quando si parla di riforma della pubblica amministrazione, quando si parla di riforma della giustizia, soprattutto di quella civile, quando si parla di testi unici, quando si parla di semplificazione delle procedure burocratiche si sta parlando di uno Stato moderno, di uno Stato che si rende conto dei problemi che deve risolvere e si impegna a farlo puntando al risultato.
Quando ciò non accade è perché lo Stato è prigioniero delle congreghe di interessi, non sempre nobili e trasparenti, che non hanno alcun vantaggio nel risolvere le criticità contro le quali, giorno dopo giorno, si scontrano i cittadini e le imprese, in quanto preferiscono gestirle, per mantenere privilegi e vantaggi.

Nelle settimane scorse, in occasione di una manifestazione di categoria, gli ingegneri catanesi hanno auspicato misure precise rivolte proprio al recupero dei centri storici e dei volumi edilizi inutilizzati o molto vecchi.
La questione è stata ripresa dal Presidente dell’ARS, l’on. Gaetano Galvagno, nel corso dei suoi saluti ai presenti, dunque è auspicabile che l’argomento, prima o poi, possa approdare a Sala d’Ercole, magari con una specifica proposta del Governo.
Ora, però, è necessario passare dalle parole ai fatti, perché ogni giorno che passa costituisce un’opportunità perduta e la Sicilia non ha affatto bisogno di opportunità sprecate, bensì ha bisogno di opportunità validamente colte.