ROMA – Come è noto, una delle truffe all’Erario più frequenti, sia in ambito nazionale sia in ambito europeo, è quella che viene attuata attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, un atto illecito che serve, principalmente, al soggetto destinatario della fattura falsa per portare illecitamente in detrazione sia l’Iva che il costo, mentre l’emittente (la cosiddetta “cartiera”) resta completamente anonima senza pagare alcunché.
In ambito comunitario, specialmente col vantaggio del particolare sistema di applicazione dell’Iva con “inversione contabile”, gli illeciti in argomento sono ancora più frequenti dando luogo alle così dette “frodi carosello” in quanto coinvolgono più soggetti, sia italiani che di altri Paesi comunitari.
Si tratta, evidentemente, oltre che di un illecito amministrativo (che ai sensi dell’articolo 21, settimo comma, del Dpr 26 ottobre 1972 n. 633, impone a colui che ha emesso la fattura irregolare di versare tutta l’Iva in esso contenuta, nonostante la mancanza di un’operazione sottostante ed a colui che l’ha utilizzata di riversare tutti l’Iva irregolarmente detratta), anche di una illecito penale, un vero reato, espressamente previsto dall’articolo 8 del Decreto legislativo n. 74 del 2000 e punito con la reclusione da quattro a otto anni.
Occorre però distinguere le fattura per operazione “oggettivamente” inesistente, da quella relativa ad operazione solo “soggettivamente” inesistente.
Nel primo caso tutto è falso, non c’è fornitore, non c’è cessionario o committente, ma principalmente non c’è nessuna operazione posta in essere. Nel secondo caso, invece, l’operazione, dal punto di vista oggettivo esiste. La cessione o la prestazione, quindi, è stata materialmente effettuata o resa. Di falso c’è solo il fornitore il quale, nella maggior parte, allo scopo di non esporsi verso il fisco (nella maggior parte di casi si tratta di soggetti che agiscono completamente in nero, magari non solo per motivi fiscali, ma anche per altri motivi ancora più gravi del semplice fatto tributario), pur effettuando (come già detto, materialmente) l’operazione, la fanno fatturare ad altri che, magari, ne traggono vantaggio addebitando in fattura l’imposta senza però versarla all’Erario.
Nel primo caso, quando, cioè, vengono trovati dall’Ufficio o dalla Guardia di Finanza elementi che dimostrano la mancata materiale effettuazione dell’operazione (come nel caso in cui il soggetto che dichiara di averla effettuata non ha una struttura idonea a giustificare l’attività che ha dato luogo all’operazione fittiziamente indicata in fattura), la responsabilità è certamente di entrambe le parti, ossia non solo del soggetto emittente la fattura, ma anche di colui il quale la stessa fattura falsa l’ha registrata detraendone l’imposta addebitata e deducendo il costo dai ricavi.
Nell’altro caso, invece, ossia quando l’operazione risulta (attraverso un approfondito controllo) effettivamente posta in essere, ferma la responsabilità del soggetto che ha emesso la fattura e di quello che l’avrebbe dovuta emettere, per considerare responsabile anche il destinatario della medesima fattura (colui che ha acquistato il bene o il servizio), occorre accertare che quest’ultimo era a conoscenza dell’illecito o comunque era nelle condizioni che non poteva non averne conoscenza.
È questo il punto dirimente che comporta o non comporta la chiamata in responsabilità, anche penale, del soggetto che ha ricevuto la fattura.
Diverse volte, però, la Corte di Cassazione, conformemente alla Giurisprudenza UE (cfr: Cause C-80/11 e C-142/11, nonché, più recentemente, C-537/22), ha affermato che “l’esercizio “fraudolento” del diritto di detrazione è riscontrabile qualora, pur sussistendo tutti i presupposti sostanziali del diritto di detrazione ed al cospetto delle condizioni formali per il suo esercizio, (…) (l’operazione sia da considerare inserita) (…) in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l’avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’Iva da parte di un cedente”.
Sempre secondo la Cassazione (cfr: ordinanza n. 17161 del 28 giugno 2018, Sent. 3144 del 2/2/22 e 26779 del 121/9/23), in questi casi l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile pretendere dal cessionario che si assicuri che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, che verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che lo stesso emittente abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponga dei relativi documenti.
In mancanza di prove concrete che dimostrano la reale connivenza del cessionario/committente, pertanto, anche secondo la giurisprudenza, nazionale ed europea, il destinatario della fattura solo “soggettivamente” inesistente, non può essere incolpato di alcuna violazione, né di natura amministrativa (confermando quindi la legittimità della detrazione operata), nè di natura penale.
È chiaro, comunque, che in presenza di elementi che fanno emergere sospetti di evasione con il sistema delle fatture fittiziamente (soggettivamente) emesse, anche il destinatario non può esimersi dal collaborare al fine di escludere la sua responsabilità per non avere saputo e perché non aveva alcuna possibilità di sapere (con la normale diligenza), che l’operazione anziché essere fatta dalla ditta che ha emesso la fattura era stata posta in essere da un altro soggetto.
In pratica, sempre come affermato dalla Cassazione, che si è uniformata anche alla giurisprudenza unionale, “in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, pure nell’ambito di una frode carosello quali sono quelle in contestazione, in cui le operazioni sono sempre effettive, l’Amministrazione ha l’onere di provare solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ossia la sua non operatività, oltre che la consapevolezza del destinatario di essere parte di un’evasione, anche in via presuntiva in quanto avrebbe dovuto conoscere l’inesistenza del contraente, dovendo poi provare il contribuente di aver rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.
Con riguardo all’emissione di fatture per operazioni inesistenti è interessante pure una recentissima sentenza della Corte di Giustizia Europea (Corte UE, C- 442/22, 30 gennaio 2024) che ha affrontato il caso in cui la fattura “fasulla” è stata emessa da un dipendente di una società con il cui nome, ma senza il suo consenso, era stata emessa la fattura in questione. In questo caso, secondo i Giudici europei, il debitore dell’imposta deve essere considerato il dipendente che abbia addebitato l’Iva in fattura, sempre che la società abbia dato prova di aver agito in buona fede e con la diligenza ragionevolmente dovuta per controllare le condotte di tale dipendente.
Sostengono i Giudici che “in una situazione siffatta, le condotte fraudolente del suo dipendente possono essergli imputate in modo tale che esso deve essere considerato quale persona che indica l’Iva nelle fatture controverse, ai sensi dell’ articolo 203 della direttiva Iva (art. 21, comma 7 del DPR n. 633 del 1972).”. è compito dell’amministrazione tributaria o del giudice verificare i fatti per stabilire se la società, cui un dipendente ha usurpato i dati di identificazione dell’Iva, abbia dato prova di aver agito con la diligenza ragionevolmente dovuta per controllare le condotte di tale dipendente.