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Turismo culturale a Favignana: la storia della tonnara rivive alla Camparìa

Molto si racconta su Favignana. Ancora poco però si dice dello stato d’animo diffuso oggi tra i suoi abitanti quando si sfiora il tasto della pesca del tonno. Soprattutto tra i non più giovani di quest’isola di tufo di 37 chilometri quadrati battuta dal ‘favonio’, il vento di ponente amato dai velisti, questa è una vicenda irrisolta, accompagnata da un sentimento deluso e dal ricordo di un’epopea emarginata dal progresso.

Era sempre piena di speranza l’uscita dal porto di parascalmi e vasceddi, le grosse imbarcazioni dalla chiglia quasi piatta, affiancate dalle muciare, barche più piccole e agili in manovra. Quella flottiglia trasportava poche miglia al largo oltre 8 chilometri di reti, insieme con altri chilometri di cavi e poi decine di ancore e boe: un mondo galleggiante nel quale, sotto la direzione di un sovrano assoluto, il rais, si celebrava il magico rituale d’intrappolamento dei tonni, fino al momento cruciale: quello del loro pericoloso sollevamento a bordo da parte dei tonnaroti, dopo essere stati fiaccati dagli arpioni e dai loro reciproci urti tre le spume arrossate di sangue nella ‘camera della morte’, la sacca formata tesando le reti dalle barche disposte a quadrato.

Un climax emozionale, la ‘mattanza’. Uno spettacolo cruento, che però portava a buon fine una pesca selettiva, rispettosa degli stock di questa fonte di proteine ‘nobili’, del cui corpo tutto si sfrutta. Anche perché, prima di finire nella morsa delle reti, le femmine dei tonni hanno comunque il tempo di liberarsi delle proprie uova fecondate. Nulla a che vedere con l’impatto delle odierne ‘tonnare volanti’, con le cui reti da circuizione questi pesci pelagici vengono bloccati e catturati già all’imbocco delle Colonne d’Ercole nelle acque di Gibilterra.

È da lì che, spinti dall’istinto di riproduzione, queste ‘macchine da corsa’ dalla livrea argentea cominciano la loro frenetica volata verso le nursery più accoglienti del Mare Nostrum, come l’areale delle Isole Egadi, per poi tornare indietro verso l’Oceano. Un ciclo di natura oggi offeso da logiche commerciali che corrono, anche loro rapidissime, verso i grandi numeri dei mercati, soprattutto quelli asiatici del sushi e del sashimi.

A Favignana, l’isola a forma di farfalla inconfondibile da Trapani e dietro lo Stagnone di Marsala, da cui dista rispettivamente 10 e 8 miglia, la Tonnara ha significato lavoro e vita. Non solo semplice sostentamento, ma anche un buon tenore, grazie all’indotto delle attività di lavorazione e confezionamento del pesce nello stabilimento davanti al porto.

Un simbolo produttivo, al tempo dei Florio, ulteriormente sviluppato dai genovesi Parodi, altra importante famiglia di armatori, che negli anni ’30 trasferì sull’isola il modello che già attuava con 3 grosse tonnare in Nord Africa: ovvero quello di una vera e propria cittadella industriale, dotata anche di chiesa e di asilo per i bambini delle mamme operaie. L’opificio della più grande delle Isole Egadi, dove lavoravano almeno 600 persone con impiego fisso, oltre a squadre di carpentieri, falegnami, elettricisti, è stato per tre quarti restaurato dalla regione nel 2009 con 15 milioni di fondi comunitari, diventando così il museo della tonnara più grande del Mediterraneo. Resta da ripristinare il cosiddetto camposanto, la zona destinata all’essiccazione delle teste dei tonni: un’operazione per la quale ci sono 5milioni di euro stanziati con il Patto per il Sud, a valere sugli esercizi finanziari del triennio 2021-2023.

Intanto, però, sbarcando a Favignana in questo torrido inizio estate, la narrazione della tonnara regala una novità. La si nota proprio di fronte allo stabilimento, a breve distanza dall’attracco dell’aliscafo. È l’imponente architettura a tre navate della Camparìa, l’edificio progettato nella seconda metà dell’Ottocento da Giuseppe Damiani Almeyda. Dei suoi 5mila metri quadrati di spazio complessivo, in larga parte coperto, è stato completato il recupero su circa l’80% degli ambienti.

Somiglia a una chiesa gotica e da solo vale già la visita. Ma una volta dentro, si comprende che questa non può essere banalmente rapida. Sotto i suoi archi e davanti alle sue pareti e colonne di pietra arenaria, ambienti larghi e alti capaci di garantire un naturale condizionamento dell’aria anche nei mesi più caldi, parte un viaggio a ritroso nel tempo. Perché anche, e soprattutto, la Camparìa fu luogo di fatica a terra: quella che accomunava altre centinaia di lavoratori egadini nel rimessaggio delle reti, degli attrezzi e delle imbarcazioni destinate alla mattanza del tonno.

Il suo nome deriva dal siciliano ‘campare’, perché al pari dello stabilimento, dava, appunto, da vivere.

Adesso parte di questo ex rimessaggio adiacente all’abitato da settimane zeppo di turisti, è stata convertita in un lounge bar con una ampia selezione di specialità ittiche e cocktails: un salotto all’aria aperta, puntellato di vele e complementi d’arredo che rimandano a quel micromondo laborioso, suggestivo soprattutto al tramonto, con le tonalità arancioni delle acque del porto, verso le quali digrada una piattaforma a sfioro, un tempo usata anche per stendere cavi e reti per la mattanza. Con una piccola quinta scenica, poco al lato: la tozza prua restaurata del Buonaugurio, il primo rimorchiatore motorizzato della Tonnara che fu la più grande del Mediterraneo.

A guidare la rinascita della Camparìa è l’imprenditore palermitano Fabio Tagliavia. Progettualità complessa, la sua e ancora in itinere. È infatti da completare il recupero delle trizzane, la rimessa delle barche: uno spazio di 1.100 metri quadrati in cui ospitare eventi e mostre. Un’operazione, questa, che si concluderà entro l’estate del 2023 e si collega a un altro intervento ambizioso, da portare a termine nel 2024: la riqualificazione del Nido del Pellegrino, ex presidio militare ubicato sulla costa meridionale dell’isola a 2 chilometri e mezzo dal centro abitato, di fronte all’isolotto del Prèveto e a una baia cristallina.

“Vi sorgerà un lussuoso resort di 20 camere munito di spa, servizi wellness e uno spazio adibito a ‘parco bio-emozionale’ per la tutela e la valorizzazione della fauna e della flora locale” – illustra Tagliavia. Rientrato in Italia in anni recenti dopo una lunga esperienza imprenditoriale in Asia, Tagliavia ha potuto combinare a risorse proprie anche un cospicuo finanziamento statale: oltre 4,8 milioni di euro, erogato attraverso Invitalia.

“L’obiettivo – spiega – “è potenziare e nel contempo qualificare la ricettività di Favignana, adeguandola a una clientela diversa, propensa a soggiorni lunghi, confortevoli e caratterizzati da un’offerta di esperienze autentiche”.

Tornando all’interno della Camparìa, si respirano sostanza e fascino dell’avventura imprenditoriale di Vincenzo Florio. Poi lo sguardo si posa sullo scafo di una imbarcazione leggendaria e si resta incantati. È la lancia di Franca Florio, salvata da un accurato intervento di recupero conservativo. Costruita da un mastro d’ascia inglese a fine ‘800 questa barca a remi ausiliaria degli yachts della dinastia d’origine calabrese, lunga oltre sette metri e con un elegante specchio di poppa quadrangolare sul quale la placca con il nome dell’avvenente First Lady siciliana, veniva da questa utilizzata per assistere da vicino alla mattanza.

Ma dentro la Camparìa pulsa anche la storia del vino Marsala: le botti di metà ‘800 della prestigiosa cantina siciliana sono gioielli di archeologia enologica. “In questi ambienti puntiamo anche a attivare un’accademia di formazione per i ragazzi di Favignana; e dare l’opportunità di farsi conoscere ai piccoli vignaioli”, aggiunge Tagliavia.

Nel progetto, inoltre, l’interior design ha un ruolo trainante. Lo porta avanti una cordata di creativi siciliani doc: lo studio A&D di Palermo, di Adriana Di Mariano e Donata Battiati, coadiuvato dallo studio Ruffino, altra compagine palermitana di architetti e dall’artista madonita Enzo Rinaldi. Tutti impegnati nel riciclaggio di oggetti e frammenti ritrovati in questo luogo.

Un esempio? Il lungo tavolo costruito da Rinaldi con gli spessi assi di legno adoperati dai tonnaroti come passerelle da cui lanciare i loro arpioni sui tonni. A diventare piedi del tavolo sono state invece alcune catene delle ancore di tonnara.

“L’idea di fondo – riprende Di Mariano – è restituire all’isola il prezioso patrimonio identitario rappresentato da questi spazi, abbandonati e ignorati da tempo immemore a due passi dalla piazza centrale”. Scopo attuato anche dalla libreria all’interno della bottega della Camparìa dove preziosi volumi si mescolano a brand di designer siciliani emergenti.

                                                                                                    Antonio Schembri