“In Italia, in media, viene uccisa una donna ogni tre giorni. (…) Peraltro, neppure la prospettiva della pena massima prevista dal nostro ordinamento, ossia dell’ergastolo, può rappresentare un deterrente efficace”. Sono parole che pesano come un macigno quelle pronunciate da Elisabetta Aldrovandi, presidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno Vittime. Parole che ci restituiscono il dramma vissuto dalle donne che subiscono violenzae e che sanno che il violento vede solo la sua “ossessione” e non ha il minimo interesse a rispettare gli ammonimenti previsti dalla legge. Un copione che si ripete, nostro malgrado, senza soluzione di continuità.
Ed ecco perché il Quotidiano di Sicilia ha lanciato “La Voce delle donne”, l’iniziativa giunta oggi alla sua quinta puntata: un progetto dedicato a tutte quelle donne che subiscono abusi ma che non hanno il coraggio di denunciare. Sono loro che vogliamo prendere per mano e accompagnare in un percorso verso la coscienza e verso la consapevolezza che non è mai troppo tardi per opporsi, per dire basta.
Accanto al contributo preziosissimo delle nostre due esperte, l’avvocato penalista Maria Teresa Cultrera, e la psicologa e psicoterapeuta Laura Monteleone, che hanno di volta analizzato temi, aspetti, criticità e persino sfumature legate alla violenza di genere, in questa puntata porteremo avanti una riflessione sulla condizione delle donne insieme con il Sottosegretario all’Istruzione, Barbara Floridia la quale ci ha rilasciato un’intervista e ha accettato anche di essere testimonial della nostra iniziativa.
Sottosegretario, qualche settimana fa si è celebrata la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Il ministro Messa e la presidente del Cnr Carrozza lo hanno detto chiaro: ripartiamo dalla famiglia e dallo studio. Accanto alla conoscenza, di quali armi altrettanto potenti disponiamo per combattere gli stereotipi?
“La celebrazione della giornata mondiale delle donne nella scienza evidenzia come, ancora oggi, ci sia questa preclusione secondo cui il genere femminile risulti essere “meno portato” per determinate discipline. Un pregiudizio dannoso che arreca un grave danno per il futuro di tante e bravissime ricercatrici nel nostro Paese. Per combattere gli stereotipi bisogna fare un cambio di passo culturale non indifferente. Bisogna sostenere e portare a termine in modo concreto delle battaglie importanti e, a mio avviso, una delle principali, è rappresentata dal gap salariale di genere. La differenza di retribuzione fra uomini e donne rappresenta una gravissima ingiustizia che si traduce in una mancanza di attenzione enorme verso l’universo femminile”.
Lei è favorevole alle quote rosa?
“Le quote rose sono state una importante conquista, hanno sicuramente dato un grande segnale culturale nel nostro Paese, ma purtroppo non hanno garantito una parità di genere in concreto e, in questi anni, abbiamo avuto tante dimostrazioni in questo senso. Mi ricollego al gap salariale di genere di cui parlavo prima e ad un sistema di welfare che risulta essere carente perché non riesce a sostenere le donne ad essere competitive nel mercato del lavoro, quanto lo sono gli uomini. Questi sono due elementi fondamentali sui quali intervenire subito. Inoltre ritengo che l’acquisizione delle competenze supererà anche il concetto di quota rosa”.
L’essere donna ha mai rappresentato un ostacolo alla sua carriera politica e istituzionale?
“Per fortuna non ho incontrato particolari difficoltà ma mi rendo conto che le figure maschili tendono ancora ad essere viste come rassicuranti. C’è molta strada da fare e io sono contenta di essere parte viva, con il mio esempio, di questo cambiamento epocale”.
Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, ha definito la parità di genere “grande incompiuta italiana”: cosa è mancato fino ad oggi alle istituzioni ma anche alla nostra società?
“Il Presidente Treu ha egregiamente posto l’attenzione sulle carenze di tutele in favore delle donne nel “sistema -Italia”. Ha parlato di una mancata uguaglianza retributiva, della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, della cronica e grave una carenza di infrastrutture sociali, come gli asili nido. Le nostre Istituzioni probabilmente solo da poco si sono rese conto di quanto siamo indietro rispetto agli altri Paesi, ed hanno ragionato seriamente sugli impatti negativi che discendono da una bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e non solo”.
Qual è il sentiero tracciato dal Pnrr sul fronte delle pari opportunità? E a che punto siamo?
“Il PNRR in questo senso sarà l’occasione di svolta e di sviluppo per il nostro Paese ed il Sud in particolare. Per quanto riguarda le pari opportunità, l’attuazione del PNRR dovrebbe comportare un innalzamento dei tassi di occupazione di donne e giovani. Tutto questo sarà possibile grazie a tutta una serie di misure in arrivo nell’ambito del welfare e delle politiche del lavoro che saranno decisive per dare un aiuto concreto alle donne che lavorano”.
Il QdS ha inaugurato l’iniziativa “La Voce delle Donne”. E’ d’accordo anche lei sul fatto che il racconto morboso e ossessivo dei femminicidi fatto fino ad oggi da una parte dell’informazione abbia prodotto effetti deleteri e di emulazione?
“È giusto raccontare e testimoniare il dramma che vivono le donne vittime di violenza, ma bisogna farlo in modo corretto allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica. Le parole sono importanti e bisogna usare termini corretti quando si narra un tragico episodio di femminicidio, senza scadere nel morboso e nel sensazionalistico. Parlare di questo argomento non è da tutti, perché se lo si fa nel modo sbagliato si rischia di rendersi complici di questa violenza”.
Sulla violenza delle donne i dati sono agghiaccianti: l’80% delle denunce viene ritirato. E, spesso, in sede giudiziaria, la strategia difensiva del violento è quella che punta a screditare la donna, facendola passare per un soggetto inattendibile, inaffidabile. Cosa fare di fronte a vergognosi “verdetti di pazzia”?
“Troppi reati che riguardano episodi di violenza e femminicidi registrano sentenze attenuate da motivazioni che sono spiegate in ‘raptus di gelosia’ o ‘pazzia’. Tutto questo evidenzia quanto sia necessario un cambiamento culturale che dia sguardo molto diverso sul fenomeno della violenza di genere. Questo deve accadere anche dalle Aule dei tribunali. Uno studio dell’Università di Palermo condotto insieme alla sociologa Alessanadra Dino, ha proprio evidenziato questo aspetto, ed è inaccettabile che ad un delitto per ‘gelosia’ vengano riconosciute le attenuanti generiche e quasi mai all’imputato viene contestata l’aggravante dei motivi abietti e futili. è, quindi, accettabile che i femminicidi vengano ricondotti e spiegati come omicidi per gelosia, perché questo fenomeno è molto più complesso”.
Per consolidata giurisprudenza di legittimità, le dichiarazioni rese dalla persona offesa non richiedono necessariamente la presenza di elementi di riscontro esterno che ne confermino l’attendibilità, essendo le stesse, ex se idonee, ad essere valutate quali fonti di prova. La tematica della credibilità della persona offesa ripropone un’annosa questione, oggetto di una vasta casistica giudiziaria, Costituisce jus receptum, del resto, il principio secondo cui, ai fini della prova della colpevolezza dell’imputato in tema di violenza (in cui l’unica fonte di prova è costituita, il più delle volte, dalla sola parola della parte lesa), è sufficiente anche la valutazione di quanto riportato dalla persona offesa.
Tale principio di diritto deve evidentemente coniugarsi con quello secondo cui, è necessario che tali dichiarazioni, prima di essere poste a fondamento di una sentenza di condanna, siano sottoposte a una verifica pregnante e particolarmente rigorosa da parte dell’autorità giudiziaria, rispetto al vaglio avente ad oggetto la deposizione di un qualunque altro testimone, con conseguente obbligo del giudice di motivare in merito all’attendibilità intrinseca del racconto e alla credibilità soggettiva del dichiarante, specie se costituitosi parte civile e rivelatosi, come tale, portatore di un interesse economico rispetto agli esiti del processo.
È pur vero, però, che secondo il libero convincimento del giudice, sia innegabile che ogniqualvolta le dichiarazioni concernano, vicende inserite nel contesto di rapporti affettivi travagliati, che ben possono determinare l’insorgenza di ragioni di contrasto se non di vero rancore fra le parti in causa – come nella vicenda processuale di un’assistita S.A.M che si doleva di essere stata vittima, insieme alla figlia, del reato di maltrattamenti ad opera del marito – la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni medesime, laddove queste costituiscano la sola fonte di prova di quanto in esse rappresentato, non può che essere condotta con il dovuto rigore al fine di escludere che l’interesse ad accusare, fisiologicamente connaturato nella vittima di un delitto che legittimamente vuole ottenere la punizione dell’autore dello stesso, trasmodi nel diverso ed ultroneo interesse a punire il responsabile di sofferenze provocate da convivenze mal tollerate o drasticamente interrotte.
Nel caso di specie, in sede di denuncia la denunciante asseriva di essere venuta a conoscenza della relazione extraconiugale dell’indagato, dopo aver letto alcuni messaggi nel telefono, e ascoltato delle conversazioni tra questo e la presunta amante e che dopo la succitata vicenda reiterate sarebbero state le condotte di violenza fisica sessuale e verbale subite dalla stessa ad opera del marito, molte delle quali in presenza dei figli della coppia. Il giudice ha disposto l’archiviazione del procedimento penale scaturente dalla denuncia proposta, fondando la sua decisione sulla forte conflittualità che traspariva dalle affermazioni della S.A.M., tenuto conto del suo narrato animato dal profondo astio e spirito di rivalsa emerso, ragion per cui tali fattori impedivano di attribuire alle dichiarazioni della medesima piena e autonoma valenza probatoria, essendo tra l’altro prive di adeguati elementi di riscontro ricavabili aliunde, segnatamente da fonti di prova esterne ed estranee alla vicenda in oggetto.
La ‘resistenza’ a parlare di ciò che sta accadendo all’interno della coppia, con il partner o con un altro con cui si è in relazione, spesso dipende dal forte imbarazzo nel raccontare comportamenti ‘strani’, per la paura di non essere creduti. Spesso la fase dello s-velamento è faticosa perché è difficile trovare quelle parole che possano essere capaci di rappresentare un tale dolore e cose ‘indicibili’da raccontare. Chi subisce un comportamento maltrattante e/o violento nel parlare di ciò può sentirsi dire “ma magari stai esagerando” o “ è impossibile che tuo marito si comporti così con te”, per cui un atteggiamento di ‘rifiuto’ in chi ascolta può rischiare di ‘inibire e reprimere’ una richiesta di aiuto da parte della vittima. Anche per i familiari a volte è difficile credere alle denunce delle donne e questo porta a non denunciare subito.
Quando si arriva alla denuncia, spesso alla vittima si chiede di dare spiegazioni in merito alla violenza subita, invece di prestarle assistenza. Questo atteggiamento in termini tecnici si chiama victim blaming: cioè far ricadere sulla vittima la responsabilità, anche solo parziale, della violenza che questa ha subito, invece di guardare al reale responsabile. Questa è una questione particolarmente delicata nel caso della violenza sessuale e della violenza domestica, dove la complessità del sistema giuridico, ma anche la mancata sensibilizzazione ed empatia in contesti in cui la vittima si ritrova dopo aver sporto denuncia, portano spesso e volentieri al fenomeno conosciuto come “vittimizzazione secondaria”. Ciò avviene perché si parte, spesso anche inconsciamente, dal presupposto di dover trovare una qualche incoerenza nella narrazione che porti la denuncia a perdere fondamento, minando quindi la credibilità della vittima.
Il caso di Margherita, che dopo il matrimonio e la nascita della prima figlia vive la ‘disillusione’ di una relazione matrimoniale fatta in un primo periodo di attenzioni e carezze e si ritrova quasi ‘reclusa’ in casa con un uomo violento che è costretta a servire, assecondando comportamenti ossessivi e perversi, isolandola da tutto e tutti, per cui vive all’interno di una relazione coniugale asimmetrica e sbilanciata, da cui ella non riesce a difendersi. Paradossalmente arriva il Covid, e la situazione di costrizione che vive le si palesa ne è più consapevole, quando le viene proibito di comunicare con alcuno per un conforto e per sapere come stanno i suoi familiari. Margherita reagisce e riesce con la bimba piccola a scappare da casa e a chiedere aiuto. Denuncia. Difficile però è dimostrare anni e anni di molestie e maltrattamenti. L’iter giuridico sarà lungo e contrastato, ma la capacità di chi sa ascoltare porterà alla ‘giusta’ sentenza.
La formazione dei professionisti che svolgono un qualsiasi ruolo all’interno del percorso di uscita dalla violenza della donna, dalle forze dell’ordine che hanno spesso il primo contatto, ai professionisti sanitari, assistenti sociali e psicologi, fino ad avvocati e giudici devono avere competenze e sviluppare una adeguata ‘empatia’ con chi ‘dice e dichiara’ di avere subito violenza, ‘saper ascoltare’ senza pregiudizi. Tutte le parti coinvolte devono essere formate sulle questioni di genere per prestare la massima assistenza, riconoscere i segnali della violenza e agire di conseguenza, con le parole giuste.
Malgrado la complessità normativa e degli interventi di assistenza, denunciare è importantissimo. Come anche ‘ il saper’ ascoltare e saper parlare con le vittime di violenza e indurle ad esplicitare quello che sta succedendo. In questi casi, è opportuno richiedere un sostegno esterno, in particolare ai centri antiviolenza, come anche ai professionisti che hanno riconosciute competenze in grado di supportare le vittime, nel faticoso processo di narrazione e di denuncia.
V puntata
prossima uscita web venerdì 29/04
prossima uscita sabato 30/04