ROMA – Per colmare il gender gap nel mondo potrebbero volerci quasi 100 anni: secondo il Global gender gap report 2020 del World economic forum, la capacità di colmare le differenze di genere fra uomini e donne a livello mondiale è del 68,6%. Dal 2006 ad oggi la riduzione del gender gap è stata mediamente di tre punti percentuali all’anno. Rispetto alla scorsa edizione, la riduzione del gap prevede un arco temporale inferiore di quasi dieci anni, grazie a progressi in tutti gli item che compongono l’indice, ad esclusione dell’item che misura la partecipazione e le opportunità economiche; il tempo richiesto per colmare il gap di quest’ultimo item si attesta a 257 anni.
L’Italia perde 6 delle 12 posizioni guadagnate lo scorso anno nella classifica Wef sulle differenze di genere, e rimane al 17° posto in Europa. secondo lo studio annuale del World economic forum (Global Gender Gap Report 2020) il gender gap index, che misura le differenze di genere in campo sanitario e della salute, della partecipazione e opportunità economiche, dell’istruzione e della partecipazione politica, è nel nostro paese pari a 70,7% (dove 100% indica la parità raggiunta). A livello mondiale l’indice medio è del 68,6%. Su 153 paesi siamo settantaseiesimi, e prendendo a riferimento solo l’area relativa all’Europa Occidentale (quella mediamente più virtuosa), siamo al 17° posto su 20 paesi, davanti solamente a Grecia,Malta e Cipro.
Secondo i dati Wef, la partecipazione politica e quella economica delle donne hanno in Italia livelli del tutto insufficienti. E al di là della posizione in classifica (la prima ci vede comunque nel gruppo di testa, la seconda ci vede al 117° posto) gli indici mostrano quanto l’Italia sia arretrata in questi due ambiti: secondo il Global gender gap report 2020, guadagniamo una posizione in classifica rispetto allo scorso anno nell’area della partecipazione ed opportunità economiche delle donne, ma il gap da colmare è ancora superiore al 40%. Molto grave invece il campo della valorizzazione politica, dove il nostro paese rimane nella parte alta della classifica, ma con un gap da recuperare di oltre il 73%.
L’aspetto più critico della bassa partecipazione economica delle donne in Italia è il cosiddetto gender pay gap: l’indice medio a livello mondiale per quanto concerne l’equità di salario a parità di lavoro fra maschi e femmine è del 61,3%. In Italia siamo fermi al 52,9%. (125° posto nella classifica del world economic forum). Eurostat attesta il gender pay gap italiano al 20,7%, posizionando l’Italia al 18° posto su 24 Paesi dell’Ue. La partecipazione delle donne al mercato del lavoro potrebbe portare benefici evidenti: il pil mondiale potrebbe crescere fino al 35% ed arrivare a 28 trilioni di dollari entro il 2025. In Italia si prevedono benefici in termini di crescita positiva del pil per oltre mezzo punto l’anno. Dal 2009 a oggi sono cresciute le percentuali di occupazione e di forza lavoro femminile, ma il tasso di disoccupazionefemminile risulta ancora fra i più alti del mondo: secondo l’Istat dal2009 al 2019 la forza lavoro femminile è salita del 10,1% e il numero di occupate è salito del 7,8%. Tuttavia, il tasso di occupazione delle donne è ancora minore rispetto a quello degli uomini (50,1% contro il 68%) e quello di disoccupazione è fra i più alti del mondo con un valore del 11,1% che ci colloca al 7° posto nel mondo.
Oltre ad avere difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro, le donne scontano anche le problematiche legate al bilanciamento vita-lavoro: a livello globale, il lavoro di cura non retribuito è svolto per il 75% dalle donne, che vi dedicano dalle 3 alle 6 ore al giorno. Non stupisce quindi che il numero di donne che lavorano part time sia il 32,9% del totale delle occupate. La scelta di lavorare part time, oltre a ridurre il guadagno medio annuo a parità di salario, deve contare anche una retribuzione oraria più bassa (-16%) a parità di mansioni.
A parità di lavoro con un collega uomo, in Italia è come se una donna cominciasse a guadagnare dal 6 febbraio: dopo una diminuzione del gap vista nel periodo 2016-2018, nel 2019 la differenza retributiva tra uomini e donne è peggiorata, attestandosi all’11,1%, pari ad oltre 3.000 euro lordi annui a sfavore delle lavoratrici. Questa brusca frenata allunga i tempi di raggiungimento della parità salariale, stimati in non meno di 55 anni.
L’accesso delle donne alle posizioni apicali resta ancora molto basso, soprattutto nelle aziende private: secondo l’Istat nel 2019 la percentuale di dirigenti donna è del 32%, quella dei quadri il 46%. Considerando solamente i dipendenti di aziende private, escludendo i dipendenti della pubblica amministrazione, la situazione peggiora, con il 15% di dirigenti donna e il 29% di quadri donna.
Il gender pay gap cresce al diminuire della categoria contrattuale ed è più alto fra impiegati e operai, che fra dirigenti e quadri: a parità di inquadramento contrattuale, le donne hanno sempre una retribuzione inferiore rispetto ai colleghi uomini. Il divario retributivo è più penalizzante tra gli operai (11,3%), seguito dal gap tra gli impiegati (11,1%), dal gap tra i dirigenti (8,8%) e infine quello più contenuto tra i quadri (4,4%). Una donna guadagna meno di un collega maschio sia a parità di ruolo professionale, che a parità di settore d’impiego: da un’analisi statistica condotta sul database di Job Pricing, nel 77,8% dei casi gli uomini hanno retribuzioni superiori alle donne e questa situazione è estesa a tutti i settori professionali.
Quando gli uomini guadagnano più delle donne il gap a loro favore può arrivare al 28%, se invece sono le donne ad avere una retribuzione migliore il gap a loro favore arriva al massimo al 15,4%. Gli unici tre settori dove in media le donne risultano avere stipendi superiori sono edilizia, utilities e agricoltura, dove tuttavia l’effetto potrebbe essere determinato dalla bassa rilevanza statistica del genere, dato il numero molto ridotto di donne occupate in queste industry. Infatti, in tutte le industry con occupazione femminile superiore al 40% la retribuzione degli uomini è sempre superiore. Tra le famiglie professionali, infine, dove le donne risultano mediamente collocate in maggioranza nelle funzioni c.d. di staff, queste ultime sono anche quelle meno remunerative.
Donne e formazione: studiano di più e si laureano prima
Le donne in Italia studiano di più, si laureano in corso in numero maggiore e con voti più elevati, ma privilegiano studi che hanno minori prospettive occupazionali e retributive: il Gap retributivo è più alto fra laureati (anche superiore al 47% nel caso di master di II livello) che fra non laureati. Il motivo è probabilmente duplice: le donne scelgono per lo più percorsi formativi con prospettive di carriera e stipendio inferiori (in particolare, sono poche le diplomate e laureate con profili tecnici e dell’area stem); le donne laureate sono ‘più giovani’, nel senso che hanno da poco preso la strada dell’istruzione terziaria, e quindi per la maggior parte sono in una fase del loro percorso professionale che non ha ancora visto maturare le opportunità di carriera e di retribuzione collegate al titolo di studio. Ed infatti il peso delle donne sul totale dei laureati aumenta al diminuire delle classi di età. Il secondo motivo lascia uno spiraglio di speranza, se si considera il trend del gap tra laureate e laureati dal 2015 ad oggi. I lavoratori uomini senza laurea guadagnano di più del totale delle donne, comprese le lavoratrici con titolo accademico: se in media il gap tra i lavoratori uomini laureati e non è di 17.000 euro, per le donne la stessa differenza è di 8.000 euro. Infine, la differenza fra le donne con laurea e uomini senza è poco meno di 6.000 euro. Le donne sono mediamente meno soddisfatte degli uomini riguardo le loro retribuzioni: secondo il Salary satisfaction report 2020 dell’Osservatorio JobPricing, su un indice che va da 0 a 10 in cui 10 rappresenta la massima soddisfazione, le donne risultano meno contente degli uomini (4 contro 3) e le valutazioni più negative riguardano la meritocrazia (2.4), l’equità interna (3.6), la mancata correlazione tra performance e retribuzione (3.1) e la mancanza di fiducia e comprensione (3.1).