Mentre l’Expo DiviNazione, l’evento collegato al G7 che partirà questo venerdì a Siracusa, è già iniziato con una lunga parata di ministri e vertici dello Stato, la Sicilia e più di tutti gli agricoltori si trovano davanti i soliti problemi di sempre. Siccità, acqua erogata col contagocce e invasi non del tutto utilizzabili poiché costretti a fare i conti con una capacità ridotta causa interrimento. Ma di statistiche pubbliche utili per risalire a quanto il fenomeno abbia impattato negli anni, non c’è granché. Una scarsa trasparenza che alimenta il paradosso di un’Isola che dell’arretratezza continua a farne uno stile di vita.
Opacità che, anche all’interno degli stessi uffici della Regione che si occupano della gestione idrica, sembra rappresentare un problema non di poco conto. “Abbiamo noi stessi difficoltà ad accedere ai dati generali dell’interrimento per stilare delle tabelle complete. Non sappiamo quanto il volume di sedimenti sia aumentato negli anni, ma dalle ispezioni è ben visibile come si stia parlando di numeri elevati. La via più semplice per ottenere il dato è quella dell’accesso agli atti”. A confermarlo in esclusiva al Quotidiano di Sicilia sono fonti interne all’Autorità di Bacino del Distretto Idrografico della Sicilia che richiedono di mantenere l’anonimato.
Con loro ripercorriamo il modus operandi della gestione idrica in Sicilia e quali i cortocircuiti che spesso si verificano ai danni dell’utenza. Un dato dal quale partire: la gestione è frammentata e i soggetti interessati svolgono funzioni diverse e a più livelli per la distribuzione e manutenzione. La Regione Sicilia svolge un ruolo determinante in entrambe le specifiche.
Proprio l’Autorità di Bacino del Distretto Idrografico della Sicilia gestisce la pianificazione delle risorse idriche; il Dipartimento Acqua e Rifiuti (Dar) è quello che ha invece la gestione di molti degli invasi presenti in Sicilia. Inoltre, svolge una funzione all’interno delle governance degli Ambiti territoriali idrici, nove in tutto che in Sicilia corrispondono con le singole province. Il passaggio successivo avviene attraverso un ambito centrale, che si districa nelle assemblee territoriali idriche (Ati), enti composti per singole province dai sindaci dei comuni interessati o dalle Città metropolitana di appartenenza (Palermo, Catania e Messina in Sicilia, ndr).
L’Assemblea territoriale idrica – Ati è stata istituita ai sensi e per gli effetti della legge regionale n.19 dell’agosto 2015, e del Decreto dell’assessore regionale per l’Energia e i servizi di pubblica utilità n. 75 del gennaio 2016, è Ente di governo per l’esercizio delle competenze previste dalle norme vigenti in materia di gestione delle risorse idriche, rappresentativo di tutti i Comuni appartenenti all’ambito di ogni provincia. Non tutte le province hanno però formalmente individuato le Ati di rappresentanza: un problema non secondario. Tra queste, c’è il caso di Messina. “Non è stata fatta una procedura formale di affidamento – spiegano ancora dall’Autorità di bacino – Questo comporta l’impossibilità di attuare tutta una serie di interventi che la legge non consente di fare in assenza dell’organismo. La mancata assegnazione è di solito una questione politica”.
Una conferma che arriva anche dalle parole della presidente dell’Azienda meridionale acque Messina (Amam), Loredana Bonasera. “La Città Metropolitana di Messina non ha ancora individuato una propria assemblea territoriale idrica (Ati) di competenza. Maggiori informazioni è possibile chiederle all’Ambito territoriale idrico”, spiega ai microfoni del QdS la numero uno degli organismi responsabili dell’erogazione idrica in riva allo Stretto. Proprio Messina è una delle nove province siciliane messe in ginocchio dalla siccità che ha investito l’Isola durante l’estate. L’erogazione in città è stata a giorni alterni, suddivisa per zone A e B e con costanti rifornimenti per tramite di autobotti: sono 14 quelle in servizio grazie alle quattro nuove unità acquistate a emergenza in corso proprio dal Comune di Messina. E se è vero che Amam e Comune hanno beneficiato di 20 milioni di euro provenienti dai fondi del Pnrr per la sostituzione di oltre 150 km di rete cittadina ormai vetusta, è pur vero che l’acqua continua a disperdersi. Al momento, la perdita è stimata in oltre il 55% dell’afflusso proveniente dalla condotta di Fiumefreddo: la principale fonte di approvvigionamento della città. L’amministrazione Basile conta di ridurre al 35% la dispersione e l’acqua H24 per la città entro l’estate 2026, in chiusura di legislatura. La siccità che sta divorando l’Isola, però, non promette nulla di buono.
La situazione organizzativa della città dello Stretto non è troppo diversa da quella di Trapani, altra città in cui non è presente una Ati di riferimento e che ha vissuto una estate con i rubinetti a secco. “Le province che per motivi politici non hanno individuato delle Ati di riferimento, non possono beneficiare di ulteriori fondi che vengono stanziati ogni anno per affrontare le emergenze idriche – spiegano ancora dalla Regione – ma non sappiamo chi invece si muove in forma autonoma e in modo diretto con fondi di provenienza extra regionale. Solo di recente la Regione ha chiesto una mappatura capillare per capire quali province stanno realizzando progetti di miglioramento idrico e a quale fase di avanzamento siano giunti i lavori”.
Di dati disponibili, al momento, anche qui neppure l’ombra. E non per mancanza di trasparenza: più semplicemente, si tratta di statistiche che si è ritenuto di non prendere mai in considerazione fino ad oggi. A dimostrazione di quanto farraginosa sia la macchina dell’acqua in Sicilia e quanto complessa la comunicazione tra singoli dipartimenti che dovrebbero collaborare quotidianamente. Oltre alle perdite sulle singole condutture – con l’ultimo report di Legambiente che in Sicilia parla di aree interne nelle quali la dispersione raggiunge picchi del 75% – “l’altro dato da prendere in considerazione è quello della manutenzione degli invasi”.
Tra i dati a disposizione ci sono quelli diffusi sul sito del Dipartimento Regionale dell’Autorità di Bacino del Distretto Idrografico della Sicilia. A luglio 2014, l’acqua presente nei bacini e negli invasi dell’Isola corrispondeva a 533,49 Milioni di metri cubi. Nello stesso rilevamento effettuato a dieci anni di distanza, l’acqua presente risulta essere 263,47 mmc: un ammanco di circa il 50%.
Dato che scende ancora se prendiamo in considerazione il mese di agosto, quando i rilevamenti hanno fatto segnare 227,91 Mmc, e quello di settembre appena diffuso (202 milioni). In dieci anni l’acqua disponibile è calata del 50% e, dallo scorso anno, ha subito un ulteriore dimezzamento.
Flusso che diminuisce e sempre meno acqua disponibile, come detto, non solo per via dei record negativi di piovosità fatti registrare negli ultimi anni dall’Isola, ma anche perché quell’acqua presente negli invasi diventa putrida e inutilizzabile a causa dell’ampia presenza di melma sui fondali. Responsabili, in questo caso, sono le società che gestiscono gli impianti. La principale, però, fa capo alla stessa Regione (Dar) che poi è costretta a stanziare milioni di euro in via emergenziale per far fronte alla carenza del prezioso liquido.
“Le condizioni presenti negli impianti sono spesso vergognose: molti non sono neanche mai stati collaudati. Altri, mai completati. Questo significa che operano a mezzo servizio, per voler essere benevoli. Il deposito di sedimenti sui fondali, che si è accumulato nel corso degli anni, ha determinato una riduzione della capacità degli invasi e una occlusione degli scali di fondo”, spiegano ancora.
Non è un caso se tutte le statistiche diffuse dal Distretto specifichino sempre che la capienza in volumi totali è considerata al lordo di interrimenti e volumi indisponibili. “Per ragioni di sicurezza, l’occlusione degli scali di fondo determina una ulteriore limitazione alla capacità di invaso, perché è necessario essere in condizione di poter aprire gli scarichi per tenere la diga sotto controllo. Per questo ci sono dighe che non possono invasare più della metà della loro capacità”. Lo stesso presidente Schifani, nei giorni scorsi intervistato da Tgcom24, ha confermato questo stato delle cose: “Ho trovato molte dighe non utilizzabili, alcune hanno un fondale pieno di sabbia e andrebbero ripulite. Occorre un lavoro di manutenzione straordinaria e ci siamo impegnati a trasmettere al ministro Salvini l’elenco delle priorità che intendiamo attuare, di concerto tra ministero e regione”.
Numeri alla mano, basti pensare che la diga di Ancipa, ricadente nel territorio comunale di Troina (EN), presenta un volume in milioni di metri cubi (3,65 – rilevamento agosto 2024) pari a circa un decimo della totale capacità di invaso (30,40 Mmc). Situazione analoga anche a Cimia, nel territorio comunale di Niscemi (CL). Totalmente a secco, sempre lo scorso agosto, gli invasi di Comunelli, Disueri e Fanaco.
Questa situazione comporta l’impossibilità di utilizzo per accumulo dell’acqua piovana in certi periodi dell’anno. “La diga di Pozzillo è una di quelle maggiormente colpite da questo problema”, spiegano. Stando sempre agli ultimi rilevamenti diffusi, a fronte di una capacità da oltre 150 milioni di metri cubi, ad agosto ne erano presenti meno di 3; nello stesso periodo del 2023 erano circa 25. In attesa del prossimo stato di emergenza da dichiarare per una Regione che fa acqua da tutte le parti. (H.C.)
Problemi di tipo strutturale, capacità di portata ridotta, presenza di interrimento e detriti di vario genere sui fondali. Ma anche scarsa sensibilità politica nell’affrontare e risolvere questioni connesse con impianti vetusti, che avrebbero già completato il loro ciclo di vita e che restano invece ancora in funzione in territori che, privati di quegli impianti, sarebbero costretti alla sete ancor più di quanto accaduto nel corso dell’ultima estate. Tutti elementi che, nell’insieme, rappresentano un serio problema per la longevità delle dighe e degli invasi presenti in tutta la Sicilia e che dovranno restare in servizio ancora per decenni. La Regione, per tramite del Dipartimento Acqua e Rifiuti (DAR), ha in gestione 26 di quegli impianti. Di questi, solo in 21 sono attivi e con una capacità di portata comunque di molto al di sotto rispetto a quella pensata all’atto della loro entrata in servizio.
Per fare il punto della situazione, numeri alla mano, il Quotidiano di Sicilia ha intervistato l’ingegnere Marco Bonvissuto, funzionario responsabile della Regione, caposervizio pro tempore del Sistema dighe all’interno del Dar e in precedenza responsabile della diga Poma di Partinico, in provincia di Palermo. Un dato emerge in modo incontrovertibile: la pressoché totale assenza di comunicazione e collaborazione tra i vari enti responsabili del sistema di gestione acque in Sicilia.
“Un aspetto, quello della scarsa comunicazione, che non mi sento di negare”, spiega in modo molto onesto proprio Bonvissuto. E tra le principali cause di ritardi cronici nell’esecuzione delle opere che dovrebbero consentire all’Isola di sopperire all’urto della siccità nei periodi più caldi dell’anno. Per città che ancora a settembre fanno fatica a tornare alla normalità per volume d’acqua erogata e sistema idrico contingentato. Ma con l’ingegnere partiamo da un quadro generale. “In Sicilia, sono 26 le dighe considerate ‘grandi’, ovvero con capacità superiori ai 100.000 metri cubi e un’altezza di sbarramento superiore ai 15 metri. Di queste, solo 21 sono in esercizio; cinque sono fuori servizio a causa di problematiche tecniche o in corso di costruzione. Tra le dighe in costruzione vi sono la diga di Blufi e quella di Pietrarossa. Le dighe Comunelli, Gibbesi e Pasquasia sono invece temporaneamente fuori esercizio per decisioni dell’organo di controllo del Ministero delle Infrastrutture”.
All’interno di questi invasi, spiega Bonvissuto, “il volume di regolazione complessivo si aggira sui 531 milioni di metri cubi. Tuttavia, a causa delle limitazioni imposte da problemi strutturali e dal fenomeno dell’interrimento, il volume effettivamente gestibile è ridotto a 393 milioni di metri cubi, con una perdita complessiva del 32% rispetto alla capacità massima regolabile. Di questa perdita, soltanto il 7% è imputabile all’interrimento, mentre il restante 25% è dovuto a problemi infrastrutturali”.
Uno dei temi spesso sollevati in relazione agli invasi siciliani è proprio quello dell’interrimento, ovvero l’accumulo di sedimenti che riduce la capacità stessa degli invasi. Secondo le stime proposte dal DAR e facenti riferimento alle statistiche elaborate tra il 2017 e il 2022, l’interrimento complessivo degli invasi ammonta a una media di circa il 7% del volume regolabile delle dighe. Una stima che non prende in considerazione il volume complessivo ma soltanto quello gestibile: altrimenti, la percentuale supererebbe quota 10% del totale. Secondo le ultime stime fornite dall’Aii, Associazione idrotecnica italiana, mette a rischio fino al 12% della capacità idrica regionale. Calcolatrice alla mano, circa 134 milioni di metri cubi di acqua.
Un dato – quello del 7%, l’unico preso a torto o ragione in considerazione dalla Regione – che spinge il Dar a considerare come marginale la questione dei detriti sui fondali rispetto alle problematiche infrastrutturali delle dighe. Non a caso, per risolvere alcune di queste problematiche e aumentare o mantenere invariate le capacità di alcuni impianti, proprio il Dipartimento è coinvolto in una campagna di interventi attiva con 64 interventi dislocati per tutta l’Isola e un investimento totale superiore ai 120 milioni di euro con fondi provenienti da Europa, governo centrale e Regione. E rimuovere quei detriti, secondo il Dar, non sarebbe una mossa conveniente quando non necessaria per il corretto funzionamento dell’impianto.
“Il fenomeno dell’interrimento riguarda non solo il fondo del serbatoio, ma anche le sponde, che vengono meno influenzate quando il livello di riempimento è inferiore al massimo consentito. La rimozione del sedimento rappresenta una sfida economica notevole. Si stima che il costo per rimuovere 1,5 milioni di metri cubi di sedimenti si aggiri intorno ai 120 milioni di euro: circa 80 euro per singolo metro cubo. La necessità di eseguire i lavori di dragaggio senza svuotare completamente le dighe e gli invasi, incide pesantemente sui costi, rendendo questa operazione poco conveniente rispetto ad altre soluzioni più sostenibili nel lungo termine”, spiega il responsabile del Sistema dighe.
La metà costerebbe invece svuotare gli stessi invasi se fossero privi di acqua. Una operazione che sarebbe stato possibile condurre nel corso dell’ultima estate in cui diversi impianti regionali – anche in gestione al Dar – sono rimasti completamente a secco. Un intervento reso però impossibile dalle lungaggini burocratiche che si celano dietro un intervento di pulizia simile, con paletti particolarmente stringenti imposti dalle autorità ministeriali. Anche in questo caso si è preferito dunque distribuire somme a fondo perduto (si pensi ai 20 milioni di euro per l’agricoltura, ndr) da parte della Regione e non prevedere un piano di intervento strutturale e infrastrutturale negli invasi siciliani che permettesse di evitare il riproporsi del problema. Plausibile che la mancanza di comunicazione tra le istituzioni chiamate alla gestione del servizio idrico abbia giocato un ruolo chiave.
Per il Dar, a rappresentare un serio problema per la longevità degli impianti, “pensati per un ciclo di 50 anni di vita, ma che restano attivi anche fino a 100 anni”, sono in primo luogo le problematiche infrastrutturali. Il 25% della riduzione di capacità delle dighe “è dovuto a limiti strutturali, quali malfunzionamenti negli scarichi, lesioni nelle sponde o problemi con gli sbarramenti. Risolvere queste problematiche richiede progetti complessi e finanziamenti adeguati. In passato non c’è stata una grande sensibilità per il tema, ma attualmente sono in corso interventi infrastrutturali che permetteranno di recuperare circa 81 milioni di metri cubi di capacità”.
Questi interventi, a differenza della rimozione dei sedimenti, sono considerati più efficaci e sostenibili nel lungo periodo, con un costo stimato di 4 euro per metro cubo recuperato, molto inferiore rispetto agli 80 euro necessari per il dragaggio. “La risoluzione delle problematiche infrastrutturali offre benefici duraturi – spiega Bonvissuto – mentre il dragaggio deve essere ripetuto periodicamente, poiché ogni anno si stima che arrivino mediamente 80.000 metri cubi di sedimenti per diga”. Il problema dell’interrimento degli impianti deriva anche dall’erosione dei terreni, dagli incendi che ogni estate devastano la Sicilia e dal trasporto di sedimenti a monte. Per Bonvissuto la colpa è anche di alcune pratiche agricole: “Bisognerebbe intervenire a monte per consentire che i detriti non raggiungano i fondali. Molte pratiche agricole non tengono conto delle caratteristiche idrogeologiche dei territori, con scarti che riempiono i canali di scolo e generano queste problematiche”.
Il futuro degli invasi dipenderà dalla capacità di attuare una strategia integrata, che preveda sia la risoluzione delle problematiche infrastrutturali sia l’adozione di misure preventive per ridurre il trasporto di sedimenti. Solo così sarà possibile garantire una gestione sostenibile e sicura delle risorse idriche dell’isola, cruciale per l’approvvigionamento potabile, irriguo e industriale. (H.C.)
Poca, pochissima acqua negli invasi siciliani. Mese per mese le perdite continuano ad essere consistenti, e in questo mese di settembre, secondo il bollettino mensile dell’Autorità di bacino del distretto idrografico della Sicilia, le riserve in tutta la regione sono praticamente la metà rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Si è passati, infatti, dai 392 milioni di metri cubi del settembre 2023 ai 202 attuali. Le riduzioni maggiori si registrano nella diga Ancipa sul fiume Troina, nella diga Arancio sul fiume Carboj, nella diga Garcia sul fiume Belice e nell’invaso Poma sul fiume Jato. Si parla di riduzioni in quest bacini che arrivano all’80% rispetto a soli 12 mesi prima, con conseguenze drammatiche sul territorio di riferimento.
I razionamenti sono stati attivati nell’intera stagione estiva. La cabina di regia della Presidenza della Regione, infatti, che si sta occupando della crisi idrica regionale, in accordo con l’Osservatorio distrettuale permanente utilizzi idrici, ha deciso di adottare misure di mitigazione in grado di mantenere la risorsa idrica residuale fino a gennaio/febbraio del 2025, mesi in cui statisticamente dovrebbero registrarsi deflussi in diga grazie alle precipitazioni, garantendo così un minimo di erogazione di risorsa ai territori sofferenti anche nel periodo autunnale e invernale. Anche i mesi che dovrebbero essere più piovosi, però, potrebbero riservare brutte sorprese, per cui si è deciso di giocare d’anticipo.
Amap (società che gestisce l’erogazione per uso potabile da alcune dighe, ndr), ad esempio, adotterà a partire dal prossimo 7 ottobre un piano sperimentale di razionamento della risorsa idrica che riguarderà diversi distretti della città di Palermo. Il piano è stato concordato con la cabina di regia istituzionale e fa seguito alle riduzioni della portata immessa al servizio del capoluogo e dei Comuni dell’area metropolitana già nei mesi appena trascorsi. Il piano sperimentale verrà modificato in corso d’opera per ridurre i disagi e massimizzare i benefici in termini di recupero di risorsa. In parallelo, vengono invitati gli utenti ad un utilizzo consapevole della risorsa, in modo da evitare gli sprechi.
Il razionamento in questo periodo, infatti, è ritenuto necessario perché si verifica un aumento della domanda, come ogni anno nella tarda stagione estiva, non solo a Palermo ma in tutte le città, a causa del rientro dei residenti, della ripresa delle attività scolastiche; nel capoluogo si aggiunge poi la forte presenza di turisti. La maggiore richiesta d’acqua porta a riduzioni della pressione in rete tale da arrivare all’interruzione dell’erogazione idrica durante le ore diurne di massimo consumo. La prosecuzione delle misure di mitigazione adottate già dallo scorso semestre consentiranno di preservare l’approvvigionamento almeno fino a dicembre di quest’anno.
Contestualmente, si continua a lavorare ad una serie di misure strutturali che consentiranno di ridurre la dipendenza dei prelievi dagli invasi, quali l’acquisizione di nuovi pozzi e l’attuazione di interventi per la riduzione delle perdite fisiche, alcuni già realizzati, altri in fase di attuazione. Non si può più pensare di procedere diversamente: al momento gli invasi regionali trattengono appena un terzo del volume di riempimento autorizzato. La Sicilia è l’unica regione d’Italia e tra le poche d’Europa in zona rossa per carenza di risorse idriche. Lo stato di siccità della regione è evidente: a fine giugno, le precipitazioni cumulate nell’ultimo anno sono state appena 414 millimetri, una condizione che si riscontra soltanto in alcune zone dell’Africa del Nord e in nessun altro Paese europeo, e i mesi di luglio e agosto non sono stati da meno. (M.G.)