Società

Giacomo Matteotti, cent’anni di antifascismo

Qualcuno un giorno racconterà ai nipoti che nell’A.D. 2024, mentre gli intellettuali si riversavano su chat Whatsapp e gruppi Facebook chiusi confrontandosi le patenti d’antifascismo per vedere chi ce le ha più smerigliate, il fascismo ritornava per davvero. Come un fantasma, muovendosi nelle forme che più gli sono congeniali: quelle dell’insidia. A cento anni dalla morte di Giacomo Matteotti i condòmini dello stabile di via Pisanelli 40 in Roma, abitato dal giornalista e politico, per un breve lasso di tempo si sono rifiutati di apporre una targa in sostituzione di quella già presente. Per paura di eventuali ritorsioni, sembrerebbe.

La nuova lastra in travertino romano rimpiazzerà quella esistente (e affissa per volontà precisa degli stessi condòmini circa quindici anni fa) aggiungendo che a uccidere Matteotti sono stati i fascisti. Come scritto nei sussidiari, e come dovremmo ricordare tutti, il deputato, in Parlamento, aveva contestato e portato alla luce i brogli elettorali legati alle elezioni dell’aprile del 1924 e il clima violento imposto dal partito di Benito Mussolini.

La nuova targa a Giacomo Matteotti

Informazioni che saranno sintetizzate in una frase, nella nuova targa: “In questa casa visse Giacomo Matteotti (1885-1924) fino al giorno della morte per mano fascista. Roma pose cent’anni dopo in memoria del martire del socialismo e della democrazia”. Tutto qui: neppure un riferimento diretto ad Amerigo Dumini, a capo dell’infame Ceka che, vantandosi d’essere una forma clandestina di squadra speciale, prende in mano il sequestro e l’uccisione di Matteotti.

È evidente che, da qualche parte e senza voler incolpare di nulla gli abitanti di Pisanelli 40, si respira ancora la paura. Siamo oltre la questione targa: se perfino nella casa del contestatore per eccellenza permane il timore di essere oggetto di ritorsioni per aver scritto la verità, cosa potrà mai accadere altrove, sapendo bene che i fascismi si insinuano nei non detti, nei vittimismi e nelle vigliaccherie? Nel centenario dal brutale e vergognoso omicidio di Giacomo Matteotti, in un clima che se non è fascista ha comunque il sapore della non richiesta nostalgia, ci sono diverse pubblicazioni a ricordarci chi fosse Giacomo Matteotti.

Una delle più interessanti è sicuramente Matteotti dieci vite, di Vittorio Zincone (Neri Pozza edizioni, 2024). Zincone traccia un ritratto del Matteotti umano e politico con profondità e ispirata precisione, in grado di sovrapporre la figura del deputato alle vampate della contemporaneità – “Matteotti era un socialista riformista. Nulla a che vedere con l’accezione che spesso oggi si dà del riformismo, come declinazione sbiadita del moderatismo o del compromesso al ribasso”.

Senza dimenticare ciò che Matteotti è stato: un antifascista che ha capito bene e prima del tempo dove volessero andare a parare le prepotenze del PNF. Ancora Zincone, firma del Corriere e autore di Piazzapulita, ricorda le infinite sfumature – racchiuse nelle “Dieci vite” del titolo – che hanno delineato l’esistenza di Matteotti. C’è il Matteotti socialista, che in Parlamento se la prende coi fascisti e chiede pure che sia cancellata la tassa di successione (caldeggiata da Benito Mussolini). Il Matteotti uomo e marito di Velia, la poetessa e scrittrice Velia Titta, con la quale ebbe tre figli; il Matteotti figlio di famiglia, nello specifico di un padre, Girolamo, che era riuscito a ottenere una certa posizione nella gestione di beni e terre a Fratta Polesine, nel Rodigino.

C’è spazio anche per il Matteotti “socialista impellicciato” e sincretico, che non disdegnava il benessere ma conosceva le abluzioni nella realtà, a contatto con contadini e miseria, sempre pronto ad aiutare gli ultimi. Il Matteotti adolescente, che si rifugia tra i libri di storia dell’Accademia dei Concordi. Il Matteotti giurista, il Matteotti che soffre per la perdita dell’amato fratello Matteo morto di tisi, il Matteotti amministratore e sindaco che combatte gli sprechi, quello polemista, quello così simpaticamente “rompicoglioni” e irruente da essere soprannominato Tempesta, etc.

Il Matteotti politico tout court, che insieme a Filippo Turati dà vita al Partito Socialista Unitario dopo la “cacciata” dal PSI. Quello stesso Turati che, a pochi giorni dalla scomparsa, sente già la necessità di evitare parole come ‘commemorazione’: “Il fratello (…) non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore”.

In quest’epoca che si accontenta di trovare eroi e divulgatori con i reel di Instagram che ci spiegano la vita, in queste settimane cui basta la parola “simbolo” per sentirsi in pace e giusti con la coscienza, a Zincone bastano trecento pagine per tratteggiare un personaggio umano, nelle cose belle e anche in quelle imperfette. Un deputato riformista che non ha avuto timore di accantonare ogni limite e ogni passione quando, a orazione in Parlamento conclusa, si gira verso i suoi: “ora voi preparate il discorso funebre per me”.

Quello che sarebbe accaduto il 10 giugno 1924 è più che l’avverarsi di una profezia; è il manifestarsi baraccone di chi, credendosi intrepido e tutelato da un regime, si consegna all’immoralità. Leggendo Zincone e riscoprendo Matteotti, viene da pensare a quanto forse abbiamo smarrito la capacità di osservare, se non di capire, la statura di certi personaggi. Eppure è a questo che, ormai, ci sta (ri)abituando il nostro strambo Paese.