Cronaca

Strage via D’Amelio, “condannato ma era innocente”, maxi risarcimento per eredi di Giuseppe Orofino

Condannato con l’accusa di aver custodito la Fiat 126, poi trasformata nell’autobomba che uccise il giudice Paolo Borsellino. Solo che quelle accuse erano false. Nel frattempo, però, Giuseppe Orofino si era fatto diciassette anni di carcere. Ora per quell’ingiusta detenzione con l’accusa di strage, lunga 17 anni, “costa cara” allo Stato che deve risarcire agli suoi eredi di Orofino: un milione e 404.925,25 euro. La decisione del maxi risarcimento è della corte d’Appello di Catania.

Diciassette anni di ingiusta detenzione per il carrozziere Orofino

Arrestato nel 1993, quando aveva 49 anni, poi condannato in via definitiva e quindi assolto nel processo di revisione solo nel 2017, Orofino dopo la lettura della sentenza scoppiò a piangere, urlando di disperazione, sbattendo la testa nel vetro della “gabbia” di imputato, proclamandosi innocente. Ad accusare il carrozziere e altre 6 persone era stato il falso pentito Vincenzo Scarantino che si era autoaccusato di avere partecipato alla strage insieme a Salvatore Candura, anche lui calunniatore.

La targa “pulita” per l’auto rubata e usata per uccidere Borsellino

Secondo l’accusa inziale, supportata dalle indagini del gruppo di investigatori Falcone-Borsellino capitanato da Arnaldo La Barbera, Orofino avrebbe fornito una targa pulita per la 126 rubata – che avrebbe anche tenuto nella sua officina – utilizzata come autobomba in via Mariano D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992 per uccidere il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e gli agenti della Polizia di Stato Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

A luglio prescritte le accuse dal Tribunale di Caltanissetta

Nel luglio scorso il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage e hanno assolto il terzo imputato, il poliziotto Michele Ribaudo.

Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia.

Secondo l’accusa erano stati loro a imbeccare i malavitosi di borgata rendendoli complici degli stragisti e accusatori di persone – alcune già condannate per mafia – poi dichiarate innocenti.