ROMA – Diverse volte abbiamo parlato dalle pagine di questo quotidiano della famosa questione del valore della prova testimoniale nel processo tributario.
Abbiamo sempre detto, inoltre, che lo vietava non solo le legge (l’articolo 7, comma 4, del Decreto Legislativo 546/1992), ma anche la Corte di Cassazione la quale, con diverse pronunce (ordinanza n. 30209 del 27 ottobre 2021 e, più recentemente, l’ordinanza 24531 del 2 ottobre 2019), ha confermato che le dichiarazioni rese da un terzo possono entrare nel giudizio assumendo soltanto il valore di indizio e non di prova.
La questione, come già detto da molto tempo abbastanza dibattuta ed ora oggetto di particolare attenzione nell’ambito della riforma del contenzioso tributario, riguardando appunto l’utilizzabilità delle prove testimoniali nel procedimento tributario, sia quelle a favore del fisco, sia quelle a favore del contribuente. Un aspetto importantissimo sul quale già da tempo si voleva intervenire, così come si evince dalla relazione sulla riforma del contenzioso tributario redatta dall’apposita Commissione del 30 giugno 2021.
L’articolo 4, comma 1, lettera c) della legge 130 del 31 agosto 2022, per i ricorsi notificati a partire dalla data di entrata in vigore della citata legge, ha stabilito, infatti, che “Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.
Giova ricordare che l’articolo 257-bis del Codice di rito, prevede che “Il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato”.
Insomma, dalla scorso 16 settembre, presso le Corti di Giustizia Tributaria, il collegio giudicante, ove lo ritenga necessario, può ammettere la prova testimoniale, ma solo per iscritto o, meglio ancora, nelle forma previste dall’articolo 257 bis del codice di procedura civile.
Ora, non c’è dubbio che qualche passo avanti è stato fatto. Ma molti dei problemi che si volevano eliminare per rendere il processo tributario più vicino a quello civile, c’erano prima e tali sono rimasti.
Intanto, resta precluso il “giuramento” del teste. Poi, al contrario degli altri processi, non è una delle parti che prevede il testimone da chiamare in causa, ma è il Giudice che deve decidere sulla controversia.
Al limite, può essere chiamato in causa pure un teste che o non ha nulla a che fare con la questione fiscale oggetto delle controversia, o, addirittura, può essere chiamato in causa un teste che anziché confermare l’assunto del contribuente, anche per motivi che esulano da quelli fiscali, dice il contrario. Tanto non ha giurato.
Meno male che è stata introdotta la norma di cui al novellato articolo 7 del Decreto legislativo 546/1992, il quale ora così recita al comma 5-bis: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Forse non c’era nemmeno bisogno di dirlo. Ad ogni modo, “quod abbundat non viziat”.