La legge Cartabia, in vigore da qualche tempo, ha diminuito fortemente la possibilità di comunicati stampa che venivano emessi dalle Procure alle volte prima di inviare il rituale avviso o informazione di garanzia, con l’effetto di creare l’attivazione di una sorta di processo mediatico nei confronti di chi riceveva tale avviso.
La regolamentazione di questa attività informativa ha ridotto l’effetto sul/sulla malcapitato/a, che spesso sapeva di essere indagato/a dai giornali prima di averne contezza legale.
Tuttavia, una parte minoritaria della stampa cerca di continuare in questo comportamento – non conforme al Codice deontologico dei giornalisti – che è quello di evidenziare accuse non ancora provate o addirittura embrionali, con la conseguenza sopra evidenziata dell’attivazione di processi mediatici.
I processi si fanno nelle aule giudiziarie, secondo il rito della procedura penale, che prevede il bilanciamento fra accusa e difesa.
Fino a oggi i magistrati possono essere accusatori o giudicanti, con una carriera unica che non distingue l’attività degli uni e degli altri. Proprio perché restano sempre magistrati, anche quando sono accusatori, una norma nel Codice di procedura penale prevede che essi debbano anche tener conto di indizi e prove a favore dell’accusato/a. Se fossero semplicemente accusatori, potrebbero ignorare tali indizi, per non danneggiare la propria linea.
Dunque, gli/le accusati/e dovrebbero avere la garanzia teorica di potere produrre fatti, prove e argomenti a propria tutela, dei quali gli accusatori, cioè i Procuratori della Repubblica e i Procuratori generali, dovrebbero tener conto proprio perché continuano a essere magistrati e non semplicemente accusatori.
Proprio per questo principio di garanzia verso chi è sotto indagine, non si dovrebbero dare informazioni di qualunque tipo al pubblico se non quelle relative a ordinanze e sentenze, perché emesse dal giudice terzo, il quale ha bilanciato, secondo scienza e coscienza, fatti e prove prodotti dall’accusa e dalla difesa in un rapporto di assoluta parità.
Ora, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sta presentando un disegno di legge che va in questa direzione, accentuando i divieti della legge Cartabia sulle informazioni che non debbono essere diffuse se non frutto appunto di ordinanze e sentenze, cioè di magistrati giudicanti terzi e quindi obiettivi.
A questo punto, chi era abituato/a a stravolgere l’etica dell’informazione ha cominciato a protestare, dicendo che questa legge mette il “bavaglio” all’informazione, che viola l’articolo 21 della Costituzione e quindi limita il diritto di chi fa questo mestiere di trasmettere all’opinione pubblica dati e notizie di vario genere.
Si tratta di proteste destituite di fondamento perché – come già scritto – l’attività intesa così è contraria al Codice deontologico dei giornalisti, in quanto danneggia chi è accusato/a e che poi sovente viene riconosciuto/a innocente.
È vero che la sentenza della Corte Costituzionale n. 202 del 15 settembre 2022 ha dichiarato risarcibile il danno per ingiusto processo, ma intanto il danno c’è stato.
Il Ddl Nordio intende garantire l’innocenza presunta di chi è accusato/a, il/la quale, ricordiamo, può essere condannato/a in base a fatti, prove e circostanze solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”, perché proprio quando vi è un dubbio l’accusato/a deve essere dichiarato/a innocente.
A maggior ragione, tutta l’attività informativa fatta sui media nel corso del processo deve tacere e prendere atto del risultato dei processi, sia davanti ai Gup (Giudice dell’udienza preliminare), sia davanti ai Gip (Giudice per le indagini preliminari), che davanti ai Magistrati di primo, secondo e terzo grado.
Tutto questo sembra chiaro salvo a chi non lo intende perché non lo vuole intendere e perché persegue obiettivi contrari all’etica pubblica e al senso della giustizia, che deve colpire i/le colpevoli quando sono tali e non processare gli/le innocenti quando sono tali.
L’argomento che poniamo è rilevante, perché bisogna far chiarezza in un ambito in cui rimestano coloro che sono in malafede.