Cultura

Goliarda Sapienza: la vita, l’arte e la gioia

Mentre questo tempo ci regala l’illusione di essere grandi protagonisti della Storia solo condividendo contenuti a scadenza sui social, lasciandoci incapaci di mantenere salda e sulla lunga durata la diatriba tra arancino o arancina restaurata di fresco da Chiara Ferragni o il disastro della Nazionale agli Europei, qualcuno, anzi: una intellettuale!, si è interrogata a lungo su come la mancanza di memoria possa mandare a carte e quarantotto la dignità dei popoli. Il suo nome è Goliarda Sapienza (1924–1996) ed è stata una delle donne di scrittura più influenti del Novecento. È stata anche una delle figlie più illustri di una Catania che, anche quando già zaurda, lo era con dignità letteraria, senza divorarsi tutto il resto come accade oggi.

Cresciuta da genitori che l’ebbero quasi cinquantenni, allevata in ambienti socialisti, con tantissimi fratelli, Sapienza eredita il nome dal fratello maggiore Goliardo, affogato dai mafiosi negli anni delle lotte per l’espropriazione delle terre in Sicilia, tre anni prima della nascita della scrittrice. La madre di Sapienza, Maria Giudice, giornalista, sindacalista e prima donna segretaria della Camera del Lavoro di Torino, e il padre, l’avvocato Giuseppe Sapienza, accolgono in casa politici e scrittori come Vitaliano Brancati. Sarà proprio la frequentazione di autori presenti nelle antologie a conferire a Goliarda Sapienza il “bagno di realtà” di cui oggi, quando bramiamo d’essere scrittori, siamo privi: questi finiscono sui libri di scuola ma non hanno una lira.

Si parla tanto di Goliarda Sapienza in sottrazione, o meglio, in chiave di cruccio

Oggi si parla tanto di Goliarda Sapienza in sottrazione, o meglio, in chiave di cruccio, di ciò che poteva essere e non è stato: ci si lamenta per quanto non sia stata capita dai suoi contemporanei, si recuperano memorabili interviste in grado di diventare anche “meme”, si rimbrottano le case editrici che non ne hanno compreso la sua genialità – soprattutto per via de L’arte della gioia, il suo titolo più famoso di recente adattato per la serialità tv, pubblicato postumo e dal percorso editoriale travagliato. Un romanzo seminale sulla scoperta di sé, avventuroso e sperimentale, in grado di cambiare rotte e registri facendo di Modesta, la protagonista, uno dei personaggi più compiuti della nostra letteratura, religiosa e selvaggia, sessuale e colta, politica e immorale.

Goliarda Sapienza intellettuale all’antica e tutta d’un pezzo

Il romanzo è stato pubblicato nel 1994 (la prima parte) e poi nel 1998, in versione integrale e postuma dai tipi di Stampa Alternativa, con grande impegno anche economico da parte del marito di Sapienza, Angelo Pellegrino, L’arte della gioia sarebbe stato riscoperto da Loredana Rotondo prima, dai tedeschi e dai francesi poi, con questi ultimi che lo avrebbero tradotto per farne un caso letterario ripubblicato, stavolta con il meritato successo, anche in Italia. Questa, però, è un’insalata Wikipedia di Goliarda Sapienza, il cui genio va ben oltre il titolo più famoso. Sapienza è stata una intellettuale all’antica e tutta d’un pezzo, sicuramente aiutata da una famiglia che le ha imposto un rigore ateo e di stampo marxista, e che le ha permesso di lasciare Catania tra le tenebre del fascismo per migrare verso Roma e iniziare la carriera d’attrice.

È proprio il rapporto con la recitazione, o meglio, quello con la macchina da presa a fortificare la convinzione di Sapienza a rappresentarsi come altro e diventare scrittrice: “Dalla macchina da presa ho imparato a scrivere”, di certo incalzata dal compagno storico, il regista Citto Maselli, amato per vent’anni. Maselli, con il quale ha lavorato anche come interprete, ne ha da sempre riconosciuto la vocazione autoriale più che quella interpretativa – sebbene Sapienza lavori come attrice in teatro e al cinema, recitando Pirandello e Brukner, diretta sui set anche da Blasetti e Comencini.

La sua scrittura, però, è una necessità che si lega – come in apertura – alla memoria, la sua e quella del mondo. Già nelle sue poesie, poco comprese a livello editoriale ma intrise di dolore, Sapienza tenta il distacco dagli altri per tornare su sé e poi di nuovo verso altre umanità, quelle della sua storia personale e quelle delle vicende di tutti. Questo si nota in un componimento scritto per la madre, scomparsa nel 1953 lasciando nella scrittrice tutte le fratture del lutto:

Potessi in quella notte/vuota posare la mia fronte/sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi/del tuo braccio e tenendo/nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati/da terrori taglienti/potessi in quella notte
risentire/il mio corpo lungo il tuo possente/materno
spossato da parti tremendi/schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda/la mia notte e tu/non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra/sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta/che prende gli uomini/davanti a una bara

La poesia è racchiusa nel volume Ancestrale, pubblicato postumo, così come postume sono state “liberate” diverse opere di Sapienza dopo il successo de L’arte della gioia. Non ultimo Io, Jean Gabin, dove dimostra non tanto di essere affiliata a un’idea un po’ vintage del fanatismo verso le star ma di essere lei stessa a incarnarsi come tale, in una Catania che è un mix tra la banlieue, Algeri e Brooklyn, con la Civita che diventa capitale del mondo e San Berillo che, grazie anche alla sua scrittura, negli anni ha goduto di un restyling reputazionale non indifferente – a Sapienza è intitolata l’ex piazza Delle Belle.

Sono tante le definizioni che si potrebbero dare di Sapienza, ma la migliore (e come immaginare il contrario) se l’è regalata lei stessa: organismo pre-industriale, come sorniona si definisce nel documentario di Anna Amendola e Virginia Onorato in relazione a un’avventura amorosa troppo “invadente” condivisa con Milan Kundera. Una scrittrice che, come pochi, ha saputo raccontare infanzia e giovinezza, nelle sue opere, come passaggio incandescente dell’identità di un essere umano.

Un’intellettuale catanese come non se ne fanno più, un’intellettuale del mondo che, come tanti scrittori di oggi, amava parlare di sé ma mai per vezzo o compiacimento, quanto per l’insana curiosità di scoprirsi anche negli altri, di arricchirsi con la severità dei ricordi e delle fatiche. Lei che, dopo l’esperienza carceraria a Rebibbia per un furto di gioielli, intervistata da Enzo Biagi ricordava un adagio ricorrente di casa sua: “il proprio Paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio”. Proprio il passaggio in prigione le ispira L’università di Rebibbia (1983, Rizzoli), una testimonianza di vita che la libera dalla coscienza di chi ritiene che non andrà in carcere e che la lega a delle donne in grado, in quel “villaggio”, di esprimersi per quel che sono davvero.

Si potrebbe continuare a lungo su Sapienza e in fondo dispiace come spesso si attende una morte o un caso letterario, una serie tv e simili per celebrare il talento di chi, in vita, ha spesso fatto la fame. Poi, s’intende, la Sapienza non era neppure l’ultima delle dimenticate: le sue pubblicazioni importanti (Lettera Aperta, Il filo di mezzogiorno) le ha avute anche in vita, di premi ne ha vinti, ma si è atteso che scomparisse dall’esistenza, che ha affrontato con angoscia e parimenti brio, per farne un’icona. Qualcuno direbbe che è meglio di niente, che in fondo la memoria dei popoli, briciola dopo briciola, se l’è conquistata. Dopo tutta questa faticosa ricerca del rigore e della libertà, però, forse avrebbe meritato di più.