“Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scrisse Italo Calvino nelle sue “Città invisibili”. Il genere di domanda a cui faceva riferimento certo non era: “E’ una destinazione “instagrammabile”, sì o no?
L’epoca del Gran Tour sembra lontanissima e la scelta di una destinazione, in buona parte, decretata dagli effetti che produrrà la condivisione degli scatti sui social. Tutto qui? Profetiche, allora, le parole di Alberto Arbasino (1930-2020), scrittore -viaggiatore non ultimo giornalista, il quale scelse di continuare a viaggiare “per dirci che non si può più viaggiare”, nell’epoca dei viaggi last-minute, del tutto compreso, delle offerte da non perdere, che ti offrono – su un vassoio d’argento – di vedere il maggior numero di paesi, addirittura metà di un continente in un tour mozzafiato; tanto che anche i libri di viaggio hanno dovuto adeguarsi, garantendo al lettore la stessa velocità per scorrere le informazioni, servizio oggi addirittura garantito in uno o più scatti e una didascalia! Gli influencer di viaggio ne sanno qualcosa, pronti ad immortalare quell’atmosfera che renderà a quello scatto più “social-consensi”: cuori, mi piace, visualizzazioni, followers, condivisioni.
Qui la questione non è demonizzare i nuovi mezzi che ci offre la tecnologia, ma capire l’evoluzione del fenomeno. Difficile, oggi, promuovere un “Viaggio in Italia” alla maniera di Goethe, che ha reso celebre l’itinerario del Gran Tour nel Belpaese per il valore formativo, culturale e artistico che ne era alla base e a cui fece da contraltare l’insostenibile turismo di massa, nato a partire dagli anni Sessanta. E’, però, auspicabile che accanto agli scatti indissolubilmente collegati agli hashtag, si possa ancora pensare a viaggiatori più che a turisti (del click e via!), affinché conoscere nuovi paesi possa essere un modo per capire meglio il proprio, attraverso personali percorsi che vadano oltre l’obiettivo della telecamera.