L’esistenza di tanti fattori di crisi che interagiscono tra di loro, l’apertura di parecchi spazi di conflitto e tragiche prove di forza, basti pensare ai recenti attacchi e contrattacchi tra Israele e l’Iran, hanno reso incandescente il contesto mondiale.
Non c’è da stupirsi che, nel vortice di questi eventi, venga ripreso da più parti il termine di “policrisi” che coniato negli anni novanta era stato recuperato tempo fa dall’ex presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker: un concetto diventato celebre soprattutto dopo essere stato adottato da uno degli storici dell’economia più famosi degli ultimi anni, il britannico Adam Tooze, e che ha rivelato tutta intera la sua valenza e adeguatezza con l’invasione russa dell’Ucraina, le rivendicazioni della Cina su Taiwan e il conflitto in Medio Oriente.
Alcuni di questi shock si sono rivelati periferici rispetto al sistema internazionale, mentre altri sono emersi dal centro, come la tragica guerra in Ucraina. A questa si è aggiunta, dopo l’attacco terroristico di Hamas, la guerra nella Striscia di Gaza e la situazione esplosiva in Medio Oriente che rendono nebuloso il futuro dell’economia e della società e minano anche la stabilità internazionale. Una debolezza del sistema internazionale e una crescente “policrisi” che sconvolge sempre più gli equilibri geopolitici, mettendo in difficoltà la cooperazione internazionale con l’avvicinarsi della catastrofe climatica.
Come ha scritto recentemente Tooze, sul Financial Times, il fatto è che ci troviamo in un momento in cui le grandi crisi globali “interagiscono tra loro in maniera tale che l’insieme delle parti è più opprimente della loro semplice somma” poiché ciascuna crisi diventa un fattore di un’altra crisi e contribuisce ad amplificarla.
In realtà, oggi vi sono molteplici fonti di incertezza che complicano le prospettive economiche: dalla questione energetica europea, connessa con l’andamento della transizione ambientale, all’inflazione strisciante, per non dire galoppante; dalla necessaria e difficile trasformazione del sistema industriale alla mancanza di un progetto strategico per un nuovo modello di sviluppo. Motivi di crisi che si amplificano in presenza di uno scenario di guerra aperto su più fronti, in cui si susseguono prove e controprove di escalation e spiragli di tregua, e in cui appaiono assai imprevedibili i futuri assetti geopolitici.
Uno scenario caratterizzato dai contrasti tra le potenze egemoni tradizionali, come gli Stati Uniti o la Russia, e quelle emergenti, come Cina e Arabia Saudita, che sono resi più aspri dai focolai di guerra, a partire dalla decennale “guerra ombra” tra Israele e l’Iran, come scrive il Financial Times, e che stanno mettendo in discussione l’assetto geopolitico globale. Si pensi che i miliardi spesi per la guerra avrebbero potuto essere investiti per la transizione ecologica, avrebbero potuto creare nuovi posti di lavoro, far diminuire le diseguaglianze, migliorare la qualità della vita e i sistemi di welfare state.
Per non alimentare “polarità” contrapposte, secondo Adam Tooze è indispensabile avviare un riordino del sistema politico internazionale, che includa le potenze emergenti “tenendo a bada” i regimi che violano i diritti fondamentali e l’uguaglianza dei popoli, e sostenendo i valori fondamentali della libertà, della democrazia e dell’integrazione economica.
In base a una recente indagine, “Age of conflict”, dell’Economist Intelligence Unit, sullo stato della democrazia in 167 Stati, risulta che ben il 39% della popolazione vive sotto un regime autoritario e quasi più del 50% del pianeta abita in paesi democratici. Tuttavia, solo poco meno dell’8% si trova, però, in condizioni di piena democrazia; non solo, ma nel 2023 si è registrato un calo della democrazia di oltre un punto rispetto al 2015, mentre si è consolidata una crescita, a partire dal 2020, della popolazione che vive sotto un regime autoritario. Si pensi alla negazione dei diritti fondamentali e alla situazione delle donne in Iran o in Afganistan.
A leggere attentamente i risultati dell’indagine sembra che le democrazie mondiali non siano in grado di prevenire o di evitare le guerre e di governare i conflitti sociali interni, rendendo difficile la realizzazione dei progetti di rinnovamento politico e la crescita virtuosa dell’economia, strettamente legata a una situazione priva di contese, di escalation militare e alla libera circolazione dei flussi produttivi e commerciali internazionali.
Non a caso, la parte più significativa dell’indagine è dedicata a democrazia, guerra e pace. La lotta per l’accaparramento delle risorse del pianeta è sempre stata tra i motivi principali dei conflitti, ma ad essa si sono aggiunti, come ha sottolineato recentemente Amedeo Lepore, contese per confini e questioni territoriali, fondamentalismi religiosi, in nome dei quali si uccidono donne e bambini, mutamenti degli equilibri geopolitici.
Perciò, in una congiuntura connotata da crescenti contrasti, le democrazie occidentali dovrebbero concentrare i propri sforzi – oltre che sulla prevenzione e sul contenimento dei conflitti regionali, per evitare che si trasformino in conflagrazioni globali – sull’apertura di una fase per la costruzione di un nuovo ordine mondiale.
Pina Travagliante
Professore ordinario di Storia del pensiero economico presso l’Università di Catania