Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Grazia Maria Nicolosi, dottore e assegnista di ricerca presso il Dicar dell’Università degli studi di Catania.
Bene Grazia, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi……, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.
«È ormai consolidato che la partecipazione, nell’era del “siamo tutti costantemente connessi”, trova facili strumenti di comunicazione e di trasferimento di informazioni, dal designer all’utente e viceversa dal fruitore al progettista. Alle persone, oggi più che mai attori e spettatori della trasformazione, è richiesto di esprimere costantemente una opinione, un like, di raccontare un pensiero. Tuttavia, tale condizione di illimitatezza possedendo in maniera fisiologica il germe dello smarrimento, rende essenziale la definizione di espedienti, il gioco uno tra questi, che ne restituiscano una dimensione progettuale. Perché il gioco. Dispositivo mediante cui intessere relazioni interpersonali, possiede il singolare privilegio di essere mediatore tra la propria sfera emozionale e il mondo esterno. Di addentrarsi all’interno della propria dimensione creativa e di intercettare quella del designer. Permette di rompere gli schemi comuni, le rigidità, di provocare. E, gli infiniti strumenti di comunicazione a disposizione oggi, (app, social, pagine web, spazi virtuali) sono difatti responsivi della partecipazione ludica delle persone, a meno che non siano asserviti ai “giochi” di potere dell’ennesimo stratega del marketing».
Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?
«Che si crei un Paesaggio Risonante è l’auspicio di ognuno di noi, ciechi anche di fronte alla bellezza di ciò che già possediamo. Per fare in modo che tale nuovo ‘bisogno’ si manifesti è necessario tuttavia creare un meccanismo di costruzione di conoscenza e partecipazione condivisa tra tutti gli stakeholders coinvolti. Non una discrasia tra cittadini, designer e enti pubblici. Gli uni i proponenti, gli altri i valutatori. Ma una dimensione attiva comune mediante cui indurre provocazioni ‘risonanti’ e straniamenti».
Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?
«Credo che il più grande limite di uno strumento giuridico di pianificazione, dai caratteri funzionalisti come il PRG sia di natura temporale e che la sua obsolescenza sia abbastanza evidente. Sono passati ben ottant’anni dalla sua prima apparizione. Come potrebbe ancora rispondere a esigenze e bisogni della attuale società contemporanea sempre più liquida, nomade, virtuale. Non proprio ‘Smart’, ma sicuramente differente. Leonardo Benevolo, nel 1963 in “Le origini dell’urbanistica moderna”, ci ricorda che l’urbanistica non è nata contemporaneamente al processo tecnologico che ha portato alla definizione della città industriale. Alla stessa maniera, insistendo a non attualizzare gli strumenti di pianificazione del territorio a disposizione corriamo il rischio di commettere il medesimo errore, ritrovandoci forse tra qualche anno a riparare i conflitti generati dalle trasformazioni indotte dalla società e quindi città digitale».
Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?
«I parametri di ingaggio, quelli che creano straniamenti, nell’era del digitale, è vero presuppongono termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”. Eppure, tali parole portano alla mia mente definizioni a me care, appartenenti a un mondo altro, quello fluttuante, che ho potuto investigare in occasione della pubblicazione del mio volume sul Giappone dal titolo “Contaminazioni dal mondo fluttuante”(Maria Grazia Nicolosi, Malcor D, 2019, NdA) assumendo significati altri rispetto alla tradizione occidentale. L’idea di incompiutezza [wabi], di impermanenza [anitya] e di transitorietà [sabi] sono difatti termini ineffabili, che i giapponesi hanno trasposto in una coscienza estetica differente. Questo per dire che la conciliazione può avvenire nella misura in cui qualsiasi dualità sia pensata essere completare e non in contrapposizione».
Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.
«È chiaro, la società dei millennials e della Generazione Z è una società un po’ contradditoria. Da un lato accelerata, digitale, virtualmente connessa, in perenne movimento, che predilige spazi di attraversamento piuttosto che di sosta, di presenza fisica. Dall’altro la medesima società comprende individui isolati, timorosi, mascherati e nascosti dietro gli schermi dei propri smartphone. E le crisi economiche, pandemiche e belliche, che si stanno susseguendo da un po’ di anni ormai, stanno di certo enfatizzando tale scenario discordante. Il ridisegno dello spazio urbano di prossimità così non può non tenere conto di tali contraddizioni. E in aggiunta, di quei valori etici che gli stessi millennials tentano spesso di difendere: la condivisione, l’inclusione e la ricerca di azioni più sostenibili».
Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?
«Credo proprio di sì ed è auspicabile che accada nel breve tempo possibile. La condivisione di spazi, di saperi, di idee è essenziale per la buona riuscita di qualsiasi progetto. Non di meno per una società divenuta talmente complessa. I Design Lab permanenti potrebbero essere strumento di interscambio, di relazione, di confronto, di coordinamento, per giungere all’universale e comune fine della creazione di Bellezza».
Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla città e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei ricercatore nelle discipline di Architettura e composizione urbana presso l’università degli studi di Catania, sei condannata a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?
«Come già accennato ritengo che la società odierna sia abbastanza contradittoria e labile. In più non credo molto alle previsioni. Sì, potrebbero essere uno strumento utile al progetto ma vista la complessità della società in cui viviamo, la cui evoluzione è altamente sensibile agli eventi ai più inattesi, credo sia un mezzo piuttosto vano. Ciò non esclude tuttavia l’essere fiduciosa nei confronti delle generazioni degli studenti di oggi, essendo essi stessi abitatori oltre che creatori di tali nuovi scenari. E, nell’accettazione di tale sfida il ruolo delle università e del mondo dell’istruzione sarà quello di costruire insieme conoscenza e capacità di analisi critica».
Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?
«Ogni designer è figlio della società in cui ha vissuto. O meglio è auspicabile che avvenga questo sia nel caso si ponga in una posizione di rottura che di continuità con essa. Tra le traiettorie d’ingaggio che tuttavia ritengo non debbano mancare, a cui attribuisco quindi un carattere universale, individuo ancora una volta il gioco e l’azione del giocare. Strumento di conoscenze e al contempo di relazione, tramite il gioco si compone e si ricompone. Si rompe e si ricostruisce. È spazio di forme e di colori. Percezione e logica. È dispositivo di trasformazione. È fatto di regole e di trasgressione. Riguarda adulti e bambini. È inclusivo di ogni persona. Il gioco crea comunicazione. Il gioco diverte».
La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?
«“Per poter abitare tra la terra e il cielo, l’uomo deve “comprendere” questi due elementi e la loro interazione” scriveva Norberg-Schulz in “Genius loci. Paesaggio ambiente architettura”, un saggio del 1979. E forse, perseguendo una visione antropocentrica, l’uomo moderno e contemporaneo sembra essersi dimenticato della propria condizione di essere naturale. In estrema contrapposizione ancora una volta con un termine di origine giapponese, Mono-no-aware, l’uomo moderno ha tentato di dominare la natura e di non vivere in eufonia con essa. È vero anche che qualsiasi oggetto creato dall’uomo è un artificio. A tale artificio tuttavia è possibile attribuire come suggerito da Heidegger una accezione positiva di inventiva e creatività. E, “solo attraverso una “rettificazione”, una “naturalizzazione” dei prodotti umani e di quelli industriali (e comunque artificiali) sarà possibile restituire all’uomo il giusto rapporto con le cose dell’arte e con quelle della natura permettendogli di raggiungere una condizione che non sia né eccessivamente oggettualizzata, reificata, cosificata, né eccessivamente “naturalistica”, irrazionale, istintiva”. Queste le parole di Gillo Dorfles in “Artificio e natura”, un testo del 1968».
“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.
Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?
«In un recente articolo dal titolo “Lo spazio costretto dell’abitare: reale o virtuale?” pubblicato per FAMagazine scrivo che per la cyborg-architettura la tecnologia è il fine e lo spazio fisico dell’architettura sembra destinato a ridursi a quello virtuale della rete fino a scomparire. Durante i mesi pandemici di lockdown, difatti, ciò che è mancata è stata la percezione del proprio corpo in relazione al corpo dell’altro. Il filosofo Massimo Cacciari(2004) scrive però che se il corpo, la realtà fisica, physis, è il luogo primo, l’essere umano tende a ricercare altri luoghi. E che benché l’anima possa non avere una dimora fissa, un a-oikos, nomade, essendo dynamis, ovvero energia intellettuale, è necessario comunque possedere luoghi in cui dimorare. Luoghi da abitare, mutevoli, instabili, ma fisici. Essenziali per non perdere la capacità umana di immaginare, di emozionarsi, di creare e quindi di progettare».
Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.
«Sono numerosi gli architetti e i designer che apprezzo e, ognuno di loro per ragioni differenti. Dovessi tuttavia citarne uno, benché siano passati già parecchi anni dalla sua poetica, mi viene in mente Ludwing Mies van der Rohe. Figura singolare del panorama moderno, entrò in contatto con la cultura giapponese interessandosi alla lettura del filosofo e maestro Zen Daisetz Suzuki. Della sua poetica apprezzo l’essenzialità e la sacralità dello spazio ricercata, la verità del costruire, la riduzione della forma, l’attenzione ai dettagli».
Cosa puoi dirmi del tuo approccio di metodo?
«Il mio approccio, come credo quello di molti, è in parte convergente con il metodo indicato in “Da cosa nasce cosa” da Bruno Munari per progettare un “Riso verde agli spinaci per quattro persone”. Una serie di attività disposte in maniera consequenziale permettono di giungere a una soluzione. Individuarla, la parte finale del processo, non è tuttavia per me essenziale. All’interno di un qualsiasi metodo progettuale o di indagine, anche la curiosità, la ricerca, ovvero il continuo approfondimento di certe ipotesi, l’intuito e la sperimentazione divengono parti essenziali. Oltretutto, credo che la risposta a certe domande contiene già in sé l’enunciazione di domande successive».
Il tuo oggetto preferito?
«Il vaso. Ne colleziono tantissimi di diverse forme, altezze, grandezze, colori, trasparenze. In genere non li riempio, perché, pur sembrando una contraddizione, non amo i fiori recisi. E non li riempio neanche di sabbie, terre, pietre. Sono lì, lasciati vuoti, in attesa forse di esser riempiti. Mi piace come la luce li attraversa, come ne è riflessa o come ne rimane intrappolata. Mi piace l’ombra che proiettano sulle superfici intorno. Mi piace la loro plasticità. Il senso di vacuità. Il celebre passo taoista dell’XI capitolo del Daodejing, il Libro della via e della virtù, mostrando, tra l’altro, l’attualità del pensiero di Lao-Tzu, recita: “Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. […] Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c’è”».