Cultura

“Lacci”, dramma intimo e verboso firmato da Daniele Luchetti

LACCI
Regia di Daniele Luchetti. Con Alba Rohrwacher (Vanda), Luigi Lo Cascio (Aldo), Laura Morante (Vanda anziana), Silvio Orlando (Aldo anziano), Giovanna Mezzogiorno (Anna), Adriano Giannini (Sandro).
Italia 2020, 100’.
Distribuzione: 01 Distribution

Napoli, anni Ottanta. Aldo e Vanda sono sposati da anni e il loro ménage familiare – già corroso da piccoli rancori, incomprensioni, assenze e gelosie – va completamente in frantumi quando l’uomo dichiara, ancora insicuro dei propri sentimenti, di aver iniziato una relazione con un’altra donna. Tra andate e ritorni, continue recriminazioni, tragedie sventate e non detti rimasti a galla a infettare la stabilità personale e coniugale, li ritroviamo trent’anni dopo, sempre insieme e sempre infelici. In mezzo i due figli, Anna e Sandro, usati, sacrificati, danneggiati e uniti da un’indicibile voglia di liberazione da quei fantasmi del passato che incidono così pesantemente sul loro presente.

Amore, lealtà, responsabilità, verità. Temi universali che affiorano, a ben vedere, dietro ogni matrimonio, luogo ideale del conflitto e non sempre della sua risoluzione. Raccontato, anche al cinema, nelle più svariate sfumature e sensibilità, dentro e fuori l’ottica d’autore o di genere, qui segna il ritorno ad una collaborazione fortunata, quella tra lo scrittore Domenico Starnone e il regista Daniele Luchetti, che nel 1995 diede vita a un film di culto come “La scuola”.

Dismessi gli schemi della commedia all’italiana, e anche quelli della commedia tout-court, Luchetti mette in scena un dramma intimo e verboso, quasi tutto girato in interni, illuminato da pochi lampi di regia (tra cui sicuramente la sequenza iniziale, la danza di un Carnevale privo di gioia in cui agli sguardi senza vita si contrappongono i piedi che si muovono all’unisono, che richiamano la metafora del titolo) e gestito quasi esclusivamente in primi e primissimi piani, salvo per due litigi della prima parte, in cui l’autore sente la necessità di tenere una distanza di riserbo dai protagonisti e sceglie il racconto (peraltro muto) dei gesti con dei piani totali disperati.

La sceneggiatura è sicuramente il punto di forza del film, per la simmetria con la quale si offre il punto di vista dei due coniugi, per il potere evocativo di un titolo che si riverbera sia nel testo sia nel sottotesto, per i cortocircuiti tra passato e presente – sempre interconnessi – nella vita di tutti i componenti della famiglia, per la coraggiosa rinuncia ad una progressione drammaturgica lineare a vantaggio di un’introspezione psicologica di personaggi scolpiti dal vero e per l’energico, potente finale di ribellione.

La prova degli attori è notevole, sebbene a prevalere sia sempre l’ombra sulla luce, il difetto sul pregio, la debolezza sulla forza, cosa che stupisce leggendo in retrospettiva la cinematografia di Luchetti e che ci fa pensare a questo come a un film di passaggio, segnale di una maturità disillusa. Spento ogni tratto di levità, chiusa la porta alla possibilità di agganciarsi ai protagonisti in termini di empatia, il regista sembra cercare una voce in qualche misura “disumana” che probabilmente non gli appartiene, finendo per girare un film ambiguo e antiquato, ultraletterario e stantio – soprattutto nella seconda parte – nella messa in scena.

Anche la sequenza finale, che invece avrebbe potuto entrare di diritto in un’ideale antologia di cinema della crudeltà, in questo senso non arriva mai a trasformare i personaggi in qualcosa di più che burattini funzionali a dimostrare la consunta tesi di fondo, ovvero che le colpe dei padri ricadono sui figli.

Voto: ☺☺1/2☻☻