Giovanni Chinnici è un avvocato che si occupa prevalentemente di diritto bancario, commerciale e della crisi dell’impresa. Specializzato nella tutela dei terzi nelle misure di prevenzione, è amministratore di aziende confiscate alla mafia e coadiutore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il QdS l’ha intervistato per farsi raccontare Rocco Chinnici, suo padre.
Avvocato, mi raccontano che suo padre era particolarmente preciso…
“Papà era un uomo estremamente abitudinario. Aveva una serie di riti che iniziavamo con il primo caffè della giornata. Era particolarmente mattiniero e si alzava regolarmente tra le 4,30 e le 5 e, dopo il caffè, lavorava nel suo studio per un paio d’ore. Il caffè che preparava dopo era per tutti noi. Portava il caffè a letto alla mamma per darle il buongiorno e poi sia alle mie sorelle sia a me, anche se il mio, vista la giovane età, era in realtà un latte macchiato che nel tempo diventò un caffè. Aveva l’abitudine di varcare la porta dell’appartamento alle otto in punto e, qualche minuto dopo, usciva dal palazzo e saliva sull’auto di scorta. È chiaro che, con il senno di poi, questo suo essere abitudinario ha agevolato i suoi carnefici, che hanno potuto realizzare il loro progetto omicidiario con precisione”.
Parliamo di quel 29 luglio…
“Io sono il più giovane dei fratelli. Nel 1983 avevo 19 anni. Caterina, la sorella più grande, si era sposata nel dicembre del 1982 ma già viveva da sola dal 1979, quando vinse il concorso come consigliere di Prefettura. In seguito vinse il concorso in magistratura e, in quel periodo, era a Caltanissetta. Elvira, l’altra sorella, viveva come me in famiglia. Quella mattina qualche minuto prima delle 8 si aprì la porta della mia camera da letto e spuntò il braccio di papà che mi porgeva il caffè. Ci scambiammo alcune parole poi sentii i suoi passi nel corridoio e la porta dell’appartamento che si chiuse. Poi…”.
Facciamo un piccolo passo indietro…
“Papà era una persona estremamente affettuosa, che amava le relazioni seppur selezionandole. La maggior parte delle persone che frequentavano la nostra casa erano suoi colleghi, spesso i colleghi più giovani, con i quali aveva un rapporto affettuoso, prendendoli sotto la sua ala protettiva. Il pranzo della domenica era particolare perché, spesso, avevamo qualche suo collega come ospite. Amava cucinare e il pranzo della domenica era un’attività che gli piaceva fare. In una domenica qualsiasi, venne a pranzo da noi un giovane magistrato, appena arrivato dal tribunale di Trapani. Si chiamava Giovanni Falcone. Notai subito la sua eleganza, anche formale. Al termine del pranzo, papà e Falcone si sedettero sul divano del grande salone in cui si pranzava. Io misi un disco nello stereo, tenendo molto basso il volume per non disturbarli. Dopo il rituale caffè iniziarono a parlare. Si trattava di argomenti di cui avevo sentito parlare papà altre volte con i suoi colleghi. Papà spiegava come voleva affrontare il problema ‘mafia’. Seppur in mancanza dei collaboratori, che verranno qualche anno dopo, papà aveva intravisto la struttura organizzativa mafiosa, stava analizzandone la struttura a più livelli, insomma ne aveva una visione lucida e, proprio per questo, aveva capito come fosse necessario organizzare il lavoro dell’Ufficio istruzione, per essere più incisivo nel contrasto ai sodalizi mafiosi. Aveva individuato quello che lui definiva il ‘terzo livello’, quello dei colletti bianchi, quello cui appartenevamo quanti, seppur esterni all’organizzazione mafiosa, erano formalmente dei fiancheggiatori. Cominciò a idealizzare, per poterlo realizzare, un nuovo modello organizzativo che favoriva la circolarità delle informazioni tra i magistrati che si occupavano di mafia. Di questo, parlò con Falcone in quel dopo pranzo a casa nostra. Mi piace immaginare che, durante quelle chiacchierate, papà concretizzò la sua idea, quella che portò alla costituzione del pool antimafia”.
Cosa le manca di papà Rocco?
“Quel 29 luglio, fu come se mi fosse spezzata la colonna vertebrale. Mi manca tutto, le vacanze estive con lui a San Ciro, altro rito familiare che erano regolarmente dal 1° agosto sino alla riapertura delle scuole. A San Ciro papà s’immergeva nelle sue origini, esprimeva il suo amore per la terra, curando lo spazio verde che circondava la casa. Papà era una personalità forte, per certi versi rocciosa e un carattere rigoroso ma straordinariamente generoso, affettuoso e dolce, doti che facevano dimenticare gli eccessi del suo carattere. Mi manca la sua capacità di dare forza a quanti lo circondavano, spingendoli a superare i problemi”.