Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Marco Alì architetto e designer che, come parecchi progettisti della sua generazione si è formato in diversi studi abbastanza prestigiosi ubicati a diverse latitudini dei nostri confini europei, ed egli adesso opera con due studi che hanno sede in Sicilia e nella città di Milano. Marco Alì si laurea in Architettura a Firenze e, dopo la laurea frequenta il master in “Collective Housing” presso la Universidad Politecnica de Madrid. Terminato il ciclo di studio e specializzazione collabora con studi di architettura e società di progettazione di fama internazionale come CZA – Cino Zucchi Architetti, Lombardini 22, Il Prisma di Milano e AIA – Arata Isozaki Asociados di Barcellona. Parallelamente ha svolto attività di collaborazione alla didattica ai corsi di Progettazione Architettonica I presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Continua a lavorare sul tema dell’abitare e sulle nuove influenze del mondo contemporaneo appassionandosi alla tecnologia dei materiali e alla psicologia dello spazio.
Luigi Patitucci. Bene Marco, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi……, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.
M.A. La partecipazione attiva dell’utenza è un obiettivo fondamentale per i designer che desiderano creare esperienze significative e coinvolgenti. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario coinvolgere gli utenti nel processo di progettazione fin dall’inizio, ciò permetterà di creare soluzioni più pertinenti e aderenti ai loro bisogni reali. Il progetto diventa una fusione di forze, guadagnando significato e ambizione attraverso la collaborazione tra designer e utenti.
L.P. Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?
M.A. La “Design Therapy”, intesa come realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale per creare un “paesaggio risonante”, risponde a bisogni emergenti nell’era contemporanea. Questo concetto potrebbe essere accolto positivamente dagli enti competenti, se presentato in modo da evidenziare i benefici pratici e tangibili per le comunità, come ad esempio: il benessere psicologico e sociale, la sostenibilità nella progettazione, l’innovazione e la creatività connessa. Nella nostra progettazione cerchiamo di dimostrare tali benefici adottando per l’appunto un approccio collaborativo e inclusivo.
L.P. Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?
M.A. Il Piano Regolatore Generale (PRG) è uno strumento tradizionale di pianificazione urbana che possiede alcuni limiti significativi nell’affrontare le sfide contemporanee, soprattutto in un’era dominata dai concetti di Smart City. Tuttavia, attraverso un approccio più flessibile, integrato e partecipativo, è possibile evolvere gli strumenti di pianificazione urbana per affrontare le sfide moderne e cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Gli architetti hanno il dovere sociale ed etico di trasportare le loro visioni all’interno di una struttura comunitaria chiamata città e di conseguenza lo sviluppo urbano.
I principali limiti possono essere:
L.P. Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?
M.A. La chiave per conciliare i profili d’intervento in un contesto urbano caratterizzato da temporaneità, provvisorietà, mutabilità e impermanenza risiede nella flessibilità e nella capacità di adattamento. Utilizzando approcci incrementali, progettazioni modulari, monitoraggio continuo, partecipazione comunitaria e innovazione tecnologica, è possibile creare città che non solo accolgono il cambiamento, ma lo abbracciano come parte integrante della loro evoluzione.
L.P. Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.
M.A. L’adattabilità e la resilienza sono fondamentali per affrontare le sfide urbane contemporanee. Ridisegnare continuamente il nostro scenario di prossimità implica un impegno costante verso l’innovazione, la sostenibilità e la partecipazione comunitaria. Attraverso una pianificazione integrata e flessibile, l’uso intelligente della tecnologia e un forte coinvolgimento della comunità, le città possono diventare non solo più resilienti, ma anche più vivibili e inclusive, capaci di affrontare con successo le crisi del presente e del futuro.
L.P. Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?
M.A. La creazione di una costellazione di Design Lab permanenti in Italia, coordinati da una sovrastruttura centrale, potrebbe trasformare il paese in un leader globale nell’innovazione urbana e nella sostenibilità. Una rete di laboratori permetterebbe di rispondere in modo dinamico e flessibile alle sfide contemporanee, valorizzando al contempo le risorse locali e promuovendo la partecipazione attiva delle comunità. Il risultato sarebbe un ambiente urbano più resiliente, sostenibile e inclusivo, in grado di affrontare con successo le complessità del nuovo millennio.
L.P. Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu spesso sei coinvolto in contesti lavorativi ove vieni ad interfacciarti con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer che sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?
M.A. La frase “dal cucchiaio alla città” rappresenta un’eredità del modernismo che puntava a una visione olistica del design, dove ogni elemento, dal più piccolo utensile domestico alle grandi strutture urbane, era considerato parte di un’unica visione coerente e razionale. La tua proposta di estenderla a “dal cucchiaio alla città e dalla città al cucchiaio” riflette una necessità contemporanea di chiudere il cerchio, integrando e riconnettendo tutte le scale del design in un dialogo continuo e bidirezionale. La nuova generazione di designer ha il potenziale per accogliere e affrontare le sfide di un nuovo scenario esistenziale con entusiasmo e competenza. La formazione multidisciplinare, sensibilità ambientale e sociale, abilità tecnologiche, mentalità collaborativa e adattabilità, li preparano bene per questo compito. Tuttavia, il successo dipenderà dalla loro capacità di integrare umanità e tecnologia, promuovere la sostenibilità, garantire equità e inclusività, favorire l’innovazione sociale e impegnarsi in un’educazione continua. Con queste qualità, possono davvero realizzare un futuro migliore, chiudendo il cerchio tra il cucchiaio e la città in modo significativo e duraturo.
L.P. Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?
M.A. La nuova generazione di designer ha il vantaggio di trovarsi in un contesto storico e tecnologico che offre nuove traiettorie di ingaggio, molte delle quali non erano percepite o disponibili per le generazioni precedenti. Questi approcci innovativi e interdisciplinari li rendono particolarmente adatti a rispondere alle sfide del presente e del futuro, contribuendo alla creazione di un nuovo scenario esistenziale che sia sostenibile, inclusivo e resiliente.
Le traiettorie d’ingaggio non percepite dai designer che li hanno preceduti potrebbero essere state:
L.P. La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?
M.A. La riflessione sulla riappropriazione del potenziale creativo della Natura e sulla critica di un mondo “troppo progettato” solleva questioni profonde e rilevanti. Essa mette in luce il contrasto tra la spontaneità e la vitalità del mondo naturale e l’artificialità spesso rigida delle creazioni umane.
Un mondo troppo progettato e disegnato può diventare ostile alla vita umana e alla biodiversità.
Pertanto, è essenziale sviluppare un approccio al design che sia rispettoso e integrativo dei processi naturali, in questo modo, possiamo creare ambienti che non solo supportano la vita, ma che celebrano e amplificano la bellezza e la vitalità del mondo naturale.
L.P. “In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.
Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?
M.A. La frase di Simone Perrotti in “Un uomo temporaneo” tocca un aspetto fondamentale del concetto di Genius Loci, cioè il senso di appartenenza e di identità che ogni individuo sperimenta rispetto a uno spazio specifico. Il concetto di Genius Loci rimane rilevante anche nell’era digitale, ma richiede una riconsiderazione e un adattamento alle nuove realtà. Sebbene la digitalizzazione abbia cambiato il nostro rapporto con gli spazi, il bisogno umano di stabilità, riconoscimento e appartenenza continua a essere fondamentale. La progettazione deve quindi cercare di integrare e riflettere queste esigenze, sia nel contesto fisico che in quello digitale, attraverso metodologie di progettazione innovative e visionarie.
L.P. Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente?
Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.
M.A. Amo profondamente mia figlia Zoe e quando ho alcuni problemi di forma, lei, con estrema leggerezza ed ingenuità li risolve. Per cui citando la leggerezza, uno degli architetti che metterei al vertice della mia top10, è Renzo Piano, con i concetti come energia, nel senso più ampio del termine, armonia e comunità, che sono ancora oggi un esempio da seguire.
L.P. Cosa puoi dirmi del tuo approccio di metodo?
M.A. Rispondo a questa domanda citando le tre caratteristiche fondamentali dell’arte del costruire citate da Vitruvio nel “de Architectura” intorno al 15 a.C: la firmitas, la utilitas e la venustas. Stabilità, Utilità e Bellezza.
La Firmitas: una casa deve essere “solida” e “sicura”.
La Utilitas: quella casa deve essere funzionalmente articolata e comprendere ciò che è necessario alla nostra vita quotidiana.
La Venustas, infine: la casa deve essere dignitosa e gradevole nella forma, ma anche bella.
L.P. Il tuo oggetto preferito?
M.A. Il mio oggetto preferito, senza dubbio la matita.