Bellezza

Il teatro di Francesca Ferro: “Recitare, quello scambio di emozioni che genera bellezza”

Capelli rossi, sguardo deciso e una voce chiara che racchiude anni di studi e passione. È la prima impressione che si prova quando si incontra per la prima volta l’attrice catanese Francesca Ferro che, ai piedi dell’Etna, ha mosso i suoi primi passi nella vita e sul palco. Nulla di nuovo all’orizzonte, verrebbe da dire, soprattutto se si considera che il teatro ce l’ha letteralmente nel sangue: figlia della famosa attrice poliedrica Ida Carrara, che a sua volta veniva da una stirpe di attori da ben nove generazioni della Commedia dell’Arte, e del commediante Turi Ferro, proprio quel Turi lì che nel 1958 ha fondato il Teatro Stabile di Catania collaborando insieme alla moglie.

Non a caso ha scelto di diplomarsi all’accademia d’arte drammatica “Umberto Spadaro T.s.C”. della sua amata città e da allora non ha mai abbandonato il palcoscenico, passando anche per i riflettori del cinema e indossando anche le vesti di regista e direttrice artistica: insomma un’artista a tutto tondo che può vantare una carriera più che ventennale. Attualmente è divisa tra Roma, che la vede impegnata al Teatro Quirino Vittorio Gassman con il celebre “La roba” di Giovanni Verga e Catania, dal 27 aprile al Musco con “I Mafiosi di Sciascia”.

Con Francesca abbiamo parlato dei “suoi” personaggi, sempre forti e ben caratterizzati, e del mestiere di attore al giorno d’oggi.

Francesca, perché possiamo dire che il teatro è bellezza?
“Chi fa teatro vuole generare arte che, indubbiamente, non può essere considerata altro che la bellezza per eccellenza. L’uomo, di fatto, ogni volta che produce bellezza produce di conseguenza arte. Il teatro è un modo di comunicare che gli esseri umani hanno sperimentato sin dagli esordi, è uno dei metodi più antichi. Recitare è un modo di trasmettere emozioni e sentimenti alle altre persone, da cui scaturisce uno scambio che genera bellezza. Io che vivo il teatro in prima persona non posso che vederlo come una delle massime espressioni di quest’ultima. Proprio in Sicilia, in qualità di culla della civiltà greca, abbiamo avuto la fortuna di essere tra i primi a sperimentare questa forma d’arte ma potremmo andare anche più indietro nel tempo a voler fare dei riferimenti storici. Il segno che l’arte greca ha lasciato nella nostra terra è testimoniato dalla quantità di teatri che in essa sono stati realizzati millenni fa e che ancora esistono e nel corso del tempo sono stati frequentati da centinaia di artisti e drammaturghi dei quali ancora aleggia la memoria e l’arte. La nostra Isola è dunque un vero e proprio concentrato di tutto ciò, è un territorio in cui la bellezza si ‘spreca’ nel vero senso del termine perché a volte la buttiamo, non la valorizziamo abbastanza forse perché la diamo per scontata. Lo testimonia la concentrazione di attori, artisti e autori che c’è in Sicilia è un primato nazionale assoluto rispetto a tutte le altre regioni. Forse dovremmo imparare a meravigliarci e a stupirci un po’ di più delle meraviglie che abbiamo sotto gli occhi”.

Cosa significa essere un attore in Sicilia al giorno d’oggi?
“Nel nostro territorio è un mestiere difficilissimo perché c’è una realtà molto variegata. Esiste una forte percentuale di offerta e il pubblico, che rappresenta la domanda, è in minoranza e si deve un po’ dividere in un certo senso. Ciò di cui sono fermamente convinta, però, è che gli attori dovrebbero sicuramente rinnovarsi. Possediamo un indiscutibile patrimonio ma, allo stesso tempo, se non c’è un ricambio e un rinnovamento rischia di diventare stagnante ed è una situazione che non si può protrarre troppo a lungo nel tempo. Prendiamo l’esempio dell’Inghilterra, che vanta una secolare tradizione nel mondo del teatro in cui, per così dire, già solo Shakespeare potrebbe bastare, eppure gli artisti continuano a reinventarsi e rinnovarsi continuamente. La Sicilia dovrebbe prendere come riferimento il mondo anglosassone perché stiamo rischiando di cristallizzarci, tranne qualche esempio particolare come Emma Dante e Vincenzo Pirrotta. C’è un forte bisogno di rinnovare non solo tecniche teatrali ma anche testi. In qualità di attori, nello specifico, non è più tempo di stare lì ad aspettare la scrittura. È necessario farsi imprenditori di sé stessi ed essere pronti a scommettere e, quando serve, anche a rischiare. Il rischio, infatti, è quello di cullarsi sul proprio repertori, che va completamente contro la filosofia di questo tipo di arte. Mentre la letteratura resta impressa su un foglio e non cambia, il teatro è sempre vivo, nonché effimero e fluido come un fiume che scorre”.

E per i giovani?
“Intraprendere la professione nella nostra terra non è sicuramente facile. È impensabile, infatti, per un giovane che vuole muovere i suoi primi passi nel settore, l’idea di potersi auto sostentare solo con questo lavoro e ha necessariamente bisogno di un piano b. Ritengo questo scenario molto triste perché un attore dovrebbe sempre avere tutto il tempo e la dedizione possibile per potersi distinguere in termini di spessore e professionalità. Quello che vediamo, invece, è la crescente carenza di lavoro nonché la sua cattiva retribuzione. Ci sono tantissimi ragazzi che vorrebbero fare questo mestiere, alcuni solo per seguire fama e successo piuttosto che per amore. Quando è così, nel 99,9% dei casi finisce per essere un flop. La nostra è una professione che in alcuni casi può essere considerata come una missione che richiede immani sacrifici e un impegno che può essere supportato solo da una grande passione”.

Come donna, hai incontrato difficoltà paragonabili a quelle che il genere incontra in qualsiasi altro settore lavorativo?
“Mi verrebbe da dire anche di più. Il teatro è fondamentalmente maschilista: l’80% dei protagonisti è maschile e il 70% dei personaggi è uomo. Nella maggior parte dei casi, inoltre, è richiesta sempre una figura maschile a cui si accompagna una prima attrice. Tutto ciò va assolutamente scardinato, per non parlare del fatto che molte lavoratrici del settore sono costrette a lavorare sotto pressione. La competizione nel settore è altissima, specie a livello femminile, che spesso è anche sleale. Per le ragazze di oggi approcciarsi a questo mondo può essere anche piuttosto destabilizzante. Quando si lavora e si fa successo ci si sente sicuri e appaggati, ma c’è anche tutto un mondo di rifiuti che rischia di mettere in discussione la propria autostima. Per questo mestiere bisogna essere forti, centrati e pronti a tanti sacrifici. Ci sono tante soddisfazioni ma non è il mondo scintillante che alcuni vedono da fuori, specie i più giovani”.

Cosa si potrebbe fare per dare un impulso alla formazione e, più in generale al settore, magari anche partendo da iniziative promosse dal Governo?
“Innanzitutto un primo passo potrebbe essere quello di ridistribuire e potenziare i fondi da destinare anche alle associazioni e ai teatri più piccoli, solitamente i più svantaggiati. Sicuramente è necessario iniziare a dare anche un peso all’arte e ai suoi professionisti. Per esempio, si potrebbe prevedere un sostentamento minimo per chi fa questo mestiere, che spesso è in balia dei momenti storici che dipendono da quando è impegnato in uno spettacolo o meno. Ci possono essere periodi di lavoro intenso e altri di totale stop, il che non garantisce alcun tipo di sicurezza economica agli attori. Un altro aspetto su cui credo che ci si debba molto impegnare riguarda il ricambio generazionale del pubblico. In platea la maggior parte degli spettatori sono pensionati, solo di rado si vedono giovani. Questo testimonia uno scollamento fortissimo, sebbene con l’iniziativa del Teatro mobile che ho portato avanti siamo riusciti a coinvolgere un po’ di più questi ultimi. In linea di massima, però, si tratta sempre di una gran fatica. Nella nostra Nazione e ancor di più in Sicilia manca una cultura del teatro. Questo accade anche perché spesso vengono proposti ai ragazzi spettacoli un po’ vetusti e troppo antiquati, nei quali loro non si riconoscono in prima persona. È vero che ci sono dei must come Romeo e Giulietta, giusto per citarne uno, che sono eterni, il trucco è solo capire come metterli in scena nel modo più giovane possibile. Spesso come attori e registi non ci si rende conto della grande responsabilità che si ha anche nei confronti delle nuove generazioni quando si mette in scena uno spettacolo. Se un adolescente vede la sua prima rappresentazione e finisce per annoiarsi totalmente, è ovvio che non tornerà più in teatro. Aggiungo, infine, che questo gap si viene a creare anche perché a scuola non vi è alcun tipo di formazione o di istruzione legata alla cultura teatrale, un paradosso se si pensa che in Inghilterra già dalle elementari i bambini vengono istruiti sulla storia di un mondo antico centinaia di anni e che fa parte della loro tradizione”.