È una rievocazione divertita e disperata di quell’unico esempio di “teatro nazionale” siciliano, che fu il Teatro dei Pupi, epopea stracciona e stupefacente dei paladini di Francia, dove il mastro-puparo, i pupi, le storie, i deliri, suoi e del pubblico degli appassionati, formavano uno scenario irripetibile.
Lo spettacolo (che andrà in onda su Rai Play il 15 aprile), scritto da Salvo Licata e Mimmo Cuticchio, vuole cogliere questo insieme compatto nell’istante in cui si profila il suo declino, nella Palermo invasa dai soldati americani nell’immediato dopoguerra.
L’incanto finì proprio in quegli anni, tra vari rumori. Era il ruggito placido delle jeep, il battito del boogie-woogie, i ritmi di una lingua veloce e impenetrabile. L’inverno del ’45 fu rigido fino alla spietatezza. I senza casa vagavano tra le macerie, dormivano e morivano nel sonno sotto i ponti dell’Oreto, e la mattina venivano “riassunti” in una rubrica del “Giornale di Sicilia” intitolata Gli assiderati. In quell’inferno di fame e di freddo, l’Opera dei Pupi bruciava gli ultimi incensi. Fumi non soltanto metaforici, in quanto proprio l’incenso si usava per creare l’effetto-nebbia sui minuscoli palcoscenici.
Alla guerra era sopravvissuta parte della generazione degli appassionati, che iperbolicamente venivano detti “malati”: i malati dell’Opra, senza i quali non poteva esserci Opra. Da quel momento il boogie-woogie, come dire la cultura degli occupanti, avrebbe sommerso ogni altra voce. Negli anni Cinquanta l’Opra avrebbe continuato a vivacchiare tra gli stenti, in sofferta promiscuità con il cinematografo di piazza: i maestri-pupari si arrendevano via via ad acquistare un proiettore e un telone, per girare tra paesi e borghi come cani famelici. In qualche luogo riuscivano ad aprire temporaneamente anche un teatrino.
Nel buio la voce di un bambino scandisce i nomi sonanti di eroi, cavalli, spade, mostri. La luce quindi rivela un simbolico mastro-puparo, don Paolo, che, nel recesso della sua bottega, tra pupi e fantasmi della memoria, è intento ad accordare un pianino.
Le varie sonate – galoppo, battaglia, lamento – sono predisposte sui cilindri, ma non basta far ruotare la manovella: anche questa semplice operazione richiede maestria. Nell’impartire i suoi insegnamenti, don Paolo si rivolge a un interlocutore invisibile, l’aiutante Paletta, presente unicamente nel suo ricordo. Al pari degli altri personaggi che va evocando, come gli appassionati spettatori di un tempo, che seguivano l’epopea dei paladini di Francia, anche per cicli che duravano centinaia di serate, quello di don Paolo è un colloquio con le ombre, ma ombre che acquistano via via consistenza nella ricostruzione minuziosa e struggente di un’autentica “serata speciale”.
Dove alle gesta eroiche dei paladini si alternano gli umori e le intemperanze del pubblico, con le immancabili fazioni tra gli estimatori di Orlando e quelli di Rinaldo e l’odio comune per il traditore Gano di Magonza.
A tutti dà voce e vita don Paolo, anche a chi, come la vedova Carrabbìa, accampa interminabili patetiche ragioni pur di entrare gratis.
Lo sfondo di questa ricostruzione totale è la Palermo degli anni Quaranta, invasa dagli alleati e prostituitasi per fame. In teatro “quella sera” c’è una certa attesa di un gruppo di spettatori particolari, soldati americani che pagano in dollari. Ma senza alcun cedimento: “All’ora giusta – dice don Paolo – si comincia!” E infatti si comincia senza gli americani e i loro dollari. Dal consiglio dei cristiani al campo dei saraceni che assediano Parigi, al tradimento di Gano, all’intervento risolutore di Rinaldo, tutto concorre al culmine: la pazzia di Orlando, che ha perduto il senno per l’abbandono di Angelica.
Al delirio di Orlando fa specchio quello del puparo, che si ricompone nella scansione del canto della manualità: come si fanno i pupi.
Gli invisibili aiutanti di un tempo sono adesso rimpiazzati da giovani operatori del Teatro dei Pupi, che in silenziosa dedizione assecondano il maestro puparo, a indicarne una continuità.
Sono quelli intrinseci al Teatro dei Pupi di scuola palermitana, utilizzati e, quantomeno nelle intenzioni, esaltati da manovra e recitazione a vista. Tra il pubblico e l’attore-puparo è caduta ogni sorta di riparo: né quinte, né boccascena. Così come, per quanto riguarda il campo dell’azione, è stato abolito il minuscolo “palco” tradizionale. Nella parola teatrale di tradizione epica, in bocca ai paladini, s’innestano gli interventi estemporanei degli spettatori.
Il percorso narrativo è scandito dall’apparato tecnico-magico delle macchine sceniche: del vento, della pioggia, della nebbia, del fuoco. Il puparo-personaggio è colto nel suo rapporto nudo e diretto con le sue creature e con la sua storia personale.